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VITA DI DANTE 81

nell'altro non si può dubitare che passasse altrove che fra ghibellini? Queste èrano tutte stèrili triche da saltarsi a piè pari, perchè nessuna luce ne rivèrbera sul cuore di Dante e sulla sua mente; e il C. Balbo saprà farne accorto sacrificio in una novella edizione, che senza dubio verrà richiesta del suo libro.

Il dotto scrittore sembra lasciarsi trarre ad accògliere come òpera di Dante ogni troppo mìsera e troppo fiacca inezia, che gli venisse gratuitamente attribuita da eruditi senza tatto, parecchi sècoli dopo la sua morte. Chi può crèdere frutto della più matura età del gran poeta una terzinaccia come questa?

Difèndimi, Signor, da lo gran vermo,
E sànami; inmperò ch'io non ho osso,
Che conturbato possa omài star fermo.

In questi versi si vede una sconciatura di quella ràpida e pittoresca e fremebonda terzina:

Quando ci scorse Cèrbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne.
Non avèa membro che tenesse fermo.

E il tener fermo è ben altro modo che lo star fermo; e Dante non era così stremo di parole che, traducendo un salmo, potesse ripètere di sè stesso quelle voci che nell'Inferno aveva applicate a un cane, e potesse cader nel brutto equìvoco di lagnarsi di non avere un osso.

Tutto ciò non accade perchè al conte Balbo manchi gusto di poesìa o delicatezza di sentire, ma per uno strano propòsito di rappresentar Dante come Dante non fu. Il che proviene da spìrito di parte, e da due supposti, nei quali non è facile convenire; il primo dei quali si è che il poema di Dante, perchè dettato a lui da passioni civili e religiose, possa avere oggidì un'efficacia civile e religiosa che veramente non ebbe mai; e il secondo si è che le fazioni dell'età nostra pòssano riguardarsi come raffigurate in quelle del tempo di Dante.

È perciò che l'autore si affaccenda a provare, che Dante non intese dir male della corte di Roma, ma solo di quella d'Avi-