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DEL CID 73

vòlano a ferirli da prodi. Il ben nato grida loro ad alta voce: Ferìteli, cavalieri, per carità. Io sono Rui Diaz, il Cid, il Campeadore di Vivar. Tutti della schiera di Bermudez fan colpo. Sono trecento lance, tutte col pennone; ogni colpo trafìgge un Moro, ed altretanti ne abbatte il secondo assalto. Vedreste tante lance alzarsi e abbassarsi, tante targhe forate e fesse, tante false corazze sanguinanti, tanti cavalli vaganti senza cavaliero. Grazie a Dio che regna in alto, poichè vincemmo sì fiera battaglia»

«Quando tal batalla avemos arrancado.»

Uno studio sagace di questi monumenti poètici, a cui mancàrono solo gli adornamenti d'una più elegante età, illustrerebbe assi la gran questione aperta da Vico sulle poesìe nazionali. Siccome poi sono qualche cosa di mezzo fra le cròniche e i poemi, forse qualche animoso ingegno potrebbe còglierne il secreto, e conquistare alla nostra poesìa alcuna di quelle belle imprese, che contro quei medèsimi Arabi e Turchi fècero i nostri vecchi Pisani e Sìculi e Lìguri e Vèneti per terra e per mare, e che giàcquero sempre obliate nelle cròniche municipali. Ma le imaginazioni dei nostri presenti scrittori non sèmbrano aggirarsi volontieri se non su quelle parti delle nostre istori, che brutte e squàllide di contagi e di càrceri e di stupri, spìrano avvilimento e depravazione.

Tanto maggior lode adunque a chi, secondo il suo ingegno, cerca variare e ravvivare la nostra vita letteraria colla luce di queste virìli fantasie, che il senso commune dei pòpoli si compiace di conservar gelosamente, e che alìmentano la dignità nazionale. Il traduttore già da qualche anno addietro si annunciò amico delle lèttere spagnuole, ch'egli va coltivando nella sua parochiale solìtudine sul dorso d'un alto monte; possa il suo esempio destare imitatori in mezzo alla tanta gioventù, che nelle città nostre va divorando fra la noia una vita ignòbile e nulla.