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rito, giusta la moda del momento, o col chiaroscuro quasi acàdemico della Staël e della Pichler, o colle tinte orientali di Chateaubriand, o coi vapori di Giorgio, ed è òpera quasi di memoria e di poco ardimento. Ma in Italia, nella terra della bella lingua, tra il dizionario della Crusca e quello dei sinònimi, una pàgina di romanzo è lavoro di più astrusa ragione che non un atto di tragedia od un canto d’epopèa. E nei nostri paesi còrrono formidàbili racconti di decine d’anni omericamente spese a fare un romanzo, od anche solo a premeditarne lo stile, anzi a crearlo; poichè ogni scrittore nostro è troppo grande da scrìvere come gli altri. Sarebbe come chi per fare un borsellino, cominciasse a tòrcersi e tìngersi da sè le sete variopinte, e fabricarsi le stellette d’oro o le perline d’acciaio.

Questa profonda e quasi fatale preoccupazione della lingua assedia lo scrivente in tutto il corso della sua fatica, e gli tarpa i voli dell’immaginazione, e gli congela i calori dell’affetto, e gli disfiora ogni freschezza e naturalezza di modi. V’è tra noi chi sogna di vocaboli e di sapore di lingua, come altri sognerebbe di tesori e di troni. Tanto tanto al tempo di Foscolo e di Cuoco lo stile, o alla francese o alla tedesca, o ad uso Goethe o ad uso Barthèlemy, seguiva l’indole propria del romanzo. Ma da certo tempo in poi nacque la pretesa d’uno scrivere che certuni chiamano popolare; e con ciò intendono una certa compostura di parole, il più delle quali non solo non è inteso da popolo alcuno, che abiti cinquanta miglia di paese; ma riesce assai malagevole anche ai più studiosi. Noi per certo vorremmo piuttosto tradurre una pagina di Plauto, che scommettere d’indovinar sempre che cosa siano i daddoli, e le tetta, e le pezzolate, e il damo, e il codrione, e il coso, e il viso ammencito, e la donna guitta, e la madre sgargiante, e la fanciulla malita, e le lettere giucche, e i letterati matterugi, e l’impiegato tarpano e favetta, e la gente trincata, e il vaso incrinato, e la natura improsciuttita, e l’ànima che aleggia, e poi s’accascia, e grùfola più bestialmente che mai. Dio buono! E tutto questo spinaio di voci ruvide e strane e pazze in un libretto che vi si fa innanzi gentile come una fanciulla, con un frontispizio tutto sgombro e puro, e col soave tìtolo di Fede e Bellezza.

Ma, è questa dunque la lingua italiana, la lingua che cin-