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pe, del garofano; ci ricorda un certo albero pestifero «con foglie d’alloro, il cui odore alletta i cavalli, di maniera che a prima giunta ebbe quasi a privare Alessandro di cavalleria»; menziona più sorta di gossipini, che hanno le foglie, le quali se non fossero minori, parrebbono di viti, e producono zucche grandi quanto una mela cotogna, le quali, quando sono mature, si aprono e mostrano palle di seta, onde fannosi vestimenta di grandissima valuta; ricorda altresì le Cine che servono al medesimo uso. Indi seguono le piante, che producono l’Incenso, la Mirra, il Mastice, il Ladano, il Cinnamomo, la Cassia, nonchè varie altre maniere di spezie e di sughi, come il Calamo, il Nardo, il Giunco odorato, l’Ammoniaco, che cogli alberi nulla hanno veramente a che fare. In quello stesso libro, nè ci sapresti scorgere per quale strana associazione di idee ciò avvenga, Plinio scende a parlare dello Sfagno, dei Maro, e d’altre cotali minori pianticelle. Ma per contrario dagli alberi, che forniscono aromi e cose odorifere, l’autore è condotto naturalmente a ragionare nel principio del seguente libro XIII degli unguenti. Dice come essi fossero oggetto di gran lusso, e quando la prima volta vennero in uso presso i Romani. Passa poi a discorrere della natura, delle specie, e dei segnali delle Palme, del modo di piantarle e di farle fruttificare. A queste vien dietro una lunga enumerazione di alberi e arbusti naturali alla Siria, alla Fenicia, all’Egitto, tra