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cente ne provava ira, e molte volte, in luogo di pigliare il dono, dava un pugno sotto a quella manina stesa e faceva volar tutto in aria: se era un ovo andava a rompersi contro un albero, oppure la focaccia si sbriciolava, ed era allora un dispiacere così forte per Raffaella da strapparle lagrime e grida di dolore. «Almeno darlo alla mamma o a Savina! oh Dio, Dio! almeno darlo a Savina!»

Savina, la sorella maggiore, non le parlava quasi mai, forse perchè aveva troppe cose da fare, ma ella la stava a guardare con ammirazione quando rifaceva i letti stando in piedi su una seggiola, o andando colla testa e le spalle sotto i materassi per rivoltarli. Perchè erano due enormi letti: in uno dormivano i cinque maschi, nell’altro la mamma, la Savina, e lei in mezzo.

Rifatti i letti, Savina spazzava le stanze, andava a prendere acqua, a lavare al fontanile presso la casa, o si portava intorno per la cucina affumicata il piccino che strillava, cercando d’acquietarlo con de’ succioli di mollica di pane inzuppata nell’acqua, in attesa che arrivasse la mamma a dargli il suo latte. Raffaella, quand’era in casa, trotterellava sempre dietro Savina, stando a vedere tutto quello che faceva, dimandandole ogni tanto: «e adesso cosa fai?»

Savina doveva aver piacere di poter almeno scambiare qualche parola colla bimba ch’era tanto tranquilla e carina, ma, chi sa perchè, dopo mezzogiorno le diceva: «Va giù da Natale a giocare. Grazia ti aspetta.»

Forse voleva che almeno lei si divertisse? forse le faceva malinconia di veder che un’altra creatura, quasi appena venuta al mondo, pigliasse già le arie di donnina e vedesse che cosa l’aspettava nella vita?