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«È Vincenzo, Vincenzo che fu preso da un gran male: abbiamo creduto che ci morisse sulla cima, lo abbiamo portato giù a stento, smarrendo la strada perchè lui era così sfinito che non sapeva più indicarla e le altre guide avevano persa la testa. Avete portato cognac? Non ne abbiamo più.»

Entrarono tutti nella piccola cucina piena di fumo, dove fra uomini, gerle e sacelli non ci si poteva più muovere. Vincenzo, disteso in terra ravvolto nelle coperte, respirava affannosamente cogli occhi chiusi. Furono levate le nuove provviste: del buon brodo dato dal locandiere, che ristorò il malato; delle buone fette di carne che scomparvero tosto in tutte le bocche dei sani.

Natale solo non mangiò: s’era inginocchiato accanto a Vincenzo e gli dava a intervalli cucchiaiate di brodo e di cognac: Vincenzo apriva ogni tanto gli occhi e lo guardava, come se lo riconoscesse ma non potesse raccapezzarsi in che modo fosse lì. Sollevò una mano dalle coperte e prese la mano sinistra del giovane. Egli s’accorse allora di non sentire il contatto e la stretta del suo amico, ma non osò dir nulla: solo quand’egli si fu addormentato quietamente si sollevò tenendosi colla destra il braccio divenuto pesantissimo e, voltosi a un dottore, gli disse: «Signore, credo d’avere questo braccio gelato; favorisca guardarlo.»

Gli levarono la giacca e il giubbone, sollevarono la manica della camicia e un’esclamazione uscì dalla bocca di tutti. Quel braccio portava sette od otto cicatrici divenute violacee e il braccio pendeva immobile, insensibile come il braccio di un morto.

«Che è questo?!» dimandò il dottore. «Siete stato