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Nocente non ha più sangue nelle vene, sente che la sua ultima ora s’avvicina; egli non osa alzare gli occhi in viso a Natale, a quel forte, stato sempre generoso con lui (ora lo riconosce nel fondo della sua coscienza) ma che ora rappresenta per lui l’inesorabile, l’inevitabile giustizia divina. Nocente non supplica, non trova nella sua gola serrata dall’agonia la forza di dire una parola, di pregare misericordia.

Egli, che nella sua cattiveria ha sempre sentito la sua debolezza e s’armava di essa per sentirsi forte, sa, sente, capisce di non poter fare più nulla.

Lassù, a quell’altezza, davanti a quell’immensa, solenne natura il senso di una forza superiore a tutti gli uomini, di una potenza eterna e misteriosa gli invade l’anima.

Il suo povero cervello così debole si turba, e Natale ora gli appare come l’angelo dalla spada di fuoco che Dio mandò ai primi uomini e ch’egli ritrova nella sua memoria; e gli cammina allato, non sa come, quasi portato da una mano invincibile che lo deve trascinare alla tomba di ghiaccio che lo aspetta.

Ora devono superare un’ultima cresta al di sopra della quale troveranno il ricovero alpino. È una specie di piramide ripidissima le cui pareti scendono in orribili precipizi.

I viaggiatori salgono con precauzioni infinite: un piede mal posato li può precipitare di qua o di là nel vuoto. Natale s’è messo ancora alla testa e scava colla sua scure dei gradini nel ghiaccio. Nocente che gli vien dopo sale dietro a lui e pensa: è lui che mi prepara la strada, lui che mi guida alla morte.