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Le morsicature che Nocente gli aveva date al braccio erano così profonde che gli procurarono la febbre; e il rancore, l’amarezza che gli bolliva dentro esacerbarono il male, e lo fecero delirare. Erano parole ora dolorose, ora terribili, e sua madre, poveretta, ne tremava, e correva a chiudere gli usci, non volendo che alcuno s’avvicinasse alla stanza e sapesse quali pensieri tormentavano il suo Natale.
Quando il delirio cessò, ella lasciò però entrare Vincenzo che insisteva da parecchi giorni per poter vedere il suo giovine amico. Egli guardò il braccio fasciato e disse col suo vocione profondo: «A me Vincenzo non si deve dire che è stata la mucca ad addentarti, come mi raccontava tua madre un momento fa. Mi è difficile di pensare che qualcuno abbia avuto il coraggio di lottare con te, pure io leggo in fondo ai tuoi occhi che furono denti umani ad afferrarti, e che hanno lasciato il loro segno ben profondo.... Senti, caro, io non mi chiamerei Vincenzo e non sarei la famosa guida che sono se non avessi gli occhi che vedono lontano. Bada, io vado a denunciare quel mascalzone e lo mandiamo dritto in gattabuia! È tempo di liberare il paese da quel disonore, capisci?»
Natale arrossì di vedersi leggere così chiaro negli occhi ciò che aveva taciuto, ma rispose colla voce molto calma: «Prima di tutto io l’ho assalito per il primo.... È vero che m’aveva provocato, ma capite che se il Signore non m’arrestava la mano a tempo io l’avrei potuto mandare all’altro mondo. Dunque il torto è stato mio. Egli s’è difeso come ha potuto e con le uniche armi che aveva.»
«Sì, ma ti dico che è tempo di finirla. Se non si piglia la buona occasione non ce ne liberiamo più.»