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nuovo, avrebbe chiusi gli occhi per abbandonarsi meglio all’incanto di quella voce così lieta, di quella vivacità infantile così schietta. Le pareva di trovarsi sotto una pioggia di fiori, e le sue nari si aprivano come ad aspirare profumi.

«Oh, come stai bene, così!» diceva la ragazza tutta felice della trasformazione che aveva subita per opera sua quella bambina a lei sconosciuta.

«Ma dimmi chi sei!» esclamò poi «sei la figlia dell’albergo?»

«Sì.»

«Dell’albergo! ho detto dell’albergo!» proruppe ridendo; «volevo dire dell’albergatore. Ma anche tu, sciocchina, mi hai risposto sì. Ah ah, siamo proprio due sciocchine! Senti; come ti chiami?»

«Dorina.»

«Che bel nome! il mio invece è tanto brutto. Pensa.... Giuseppina! Vero com’è brutto? e poi così lungo! In casa mi chiamano Pinella: fa ridere, vero? pare il nome di una cavallina. Tu chiamami invece Ina. Nessuno mi vuol chiamare così, eppure è un nomino così bello. Mi pare che diventerei quieta quieta se mi chiamassero Ina. Dicono che sono un folletto, ma è colpa loro, vedi; ogni volta, che mi chiamano Pinella mi vien voglia di far un salto.»

Dorina rise, oh, come rise di cuore e quanta gioia le entrò nell’anima con quel riso!

In quel momento una voce di signora, chiamò di fuori:

«Pinella! dove sei, Pinella!»

«Sono qua» gridò accorrendo la bambina; ma tornò ancora un istante sull’uscio: «Scusa, ve’, Dorina, vado a lavarmi un poco; dopo torno giù e d divertiremo insieme.»