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L’albergo era in fondo alla larga piazza che pareva proprio un maraviglioso palcoscenico. Tutte le case migliori del paese erano lì in semicerchio: era l’ambizione di quei montanari che s’arricchivano all’estero, di venir a fabbricarsi la casa sulla piazza. Uno che s’era fatto una fortuna a Parigi colle stufe, aveva eretto il palazzo comunale con le aule per le scuole; un altro, ch’era diventato intraprenditore di strade e aveva una splendida villa a Ginevra, aveva mandato un bel capitaletto perchè il paese avesse il corso elementare completo del quale potessero fruire anche gli altri comuni vicini.

L’albergo, che portava scritto in blu Hôtel du Panorama, era il fabbricato più gaio, perchè spiccava isolato su un fondo di praterie color smeraldo: in muratura sino al primo piano, aveva il resto tutto in legno, verniciato in grigio perla, colle piccole finestre fitte fitte ornate di tendine di tulle dietro i vetri lucenti.

L’inverno aveva le finestre quasi tutte chiuse, ma appena veniva il caldo si riapriva, pareva rifiorire anch’esso insieme alla natura, e nel luglio e nell’agosto ogni giorno arrivava gente per passarvi alcune settimane o per organizzare gite ai ghiacciai.

Ora — si era alla fine di giugno, — stavano preparandosi in attesa degli ospiti. Facevano tutto in famiglia: è così che i montanari accumulano danari: fratelli e sorelle, cognate e nipoti aiutavano nel servizio, e l’albergatore stesso rinnovava le vernici e ridava il bianco allo zoccolo della casa e alla cucina. Sua moglie, ch’era stata, come dissi, una brava maestra di Torino, pensava alla guardaroba e dirigeva — tutta la parte fina — come diceva suo marito con