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la carne, il burro e il lardo messi là sul ghiaccio mandavano odore, ma ella piangeva così tristamente solo al pensiero di non poterci andare, che finivano sempre col contentarla.

Ella se ne stava dunque là quasi tutto il giorno col viso contro l’inferriata della piccola finestra quadrata in cui erano intrecciati rami di castagno per tener lontano le mosche, Dorina, sfregando la fronte contro quelle foglie secche, aspirandone l’odore, s’illudeva d’essere in un bosco fitto, nell’erba, su quei prati ch’erano un sogno per lei, sebbene circondassero tutto il paese e fossero così vicini alla sua casa.

Dal suo nascondiglio ella udiva scendere rumorosamente dalla scala di legno, passare nel vestibolo scalpitando, tutti i piedini dei piccoli ospiti, e udiva le loro voci, le loro grida, poi li vedeva uscir nel prato, così belle le bambine nelle loro vestine chiare, coi capelli lunghi e sciolti, e i maschietti vestiti alla, marinala col collo scoperto che dava loro un’aria fiera e disinvolta. Facevano saltare la palla di gomma, impiantavano i birilli; saltavano nella corda, facevano passeggiare le bambole nell’erba alta, si bisticciavano, strillavano, discorrevano.

Dorina teneva d’occhio tutti: sorvegliava i più piccini, udiva le congiure dei prepotenti che venivano ad appoggiarsi al muro per combinare le loro bricconate, e provava la tentazione di mettere in guardia le bambine.

Due bimbe, due sorelline, una sottile dalle arie di donnina a quattr’anni, l’altra rotonda, grassa, venivano colle loro scodelle di legno a far torte e pasticcini colla terra, proprio sotto al finestrino. Quando la maggiore stava dritta, Dorina avrebbe potuto metterle una mano sui bei riccioli castagni.