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scritta da girol. tiraboschi. |
xxiii |
ivi veduti altissimi monti e vaste provincie intorno al mare, e più da lungi paesi così lontani, che l’occhio non ben giungeva a vederli. Tai cose eran da lui dette dimostrazioni, ed esse erano tali che i rozzi e i dotti credevano di veder cose reali, non già dipinte. Due sorti ne avea, altre diurne, altre notturne. Nelle notturne vedeansi Arturo, le Pleiadi, Orione, ed altre stelle splendenti; rimiravasi sorger la luna dietro alle cime de’ monti, e distinguevansi le stelle che precedon l’aurora. Nelle diurne vedeasi il Sole, che per ogni parte spargeva i suoi raggi. Ei fece stupire alcuni grandi della Grecia, ch’erano bene esperti nelle cose di mare; perciocchè mostrando loro per mezzo di quel picciolo pertugio, questo suo finto mondo, e chiedendo lor che vedessero; ecco, dissero, che noi veggiamo un’armata navale fra l’onde: essa giugnerà qua innanzi al mezzodì, se pure qualche tempesta non tratterralla; perciocchè veggiamo il mare che comincia a gonfiarsi, e ripercuote troppo i raggi del Sole. Egli era più intento a trovar tali cose, che a promulgarle, perciocchè più dilettavasi di esercitar l’ingegno, che di ottener fama. Questa descrizione sembra che non possa intendersi che di una camera ottica, di cui quindi converrebbe attribuir l’invenzione all’Alberti, e non a Giambatista Porta vissuto nel secol seguente; che comunemente n’è