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libro primo 83

Quinto Marzio, lasciato le essequie del figliuolo, venne in senato a consigliare la patria. Pericle el simile, Telamon e Antigono e Senofonte e Anassagora insieme e quella femmina lacedemoniese; quali uomini a maggior cose desti, rispuosero: ’Sapea io me avere generato un uom mortale e aspettavalo, adoperandosi quanto io el desiderava in cose pericolose per la sua patria, ancora prima udire simile suo ben consigliato offizio’. E molti altri, quali sarebbe qui lungo recitarli, a me addussi a memoria in que’ miei casi, e dispuosi imitarli. E tanto di me a me stessi fu licito quanto io così disposto volli, e imitando que’ savi proposi a me stessi simile a loro laude e lieto frutto. Dario re, padre di Serse, tra le lode sue dicea sé avere sofferte in pace e in guerra molte cose gravi, e per le avversità sé essere diventato più prudente. Così fu a me frutto riprovando la fortuna imparare a sofferirla e rimanermi con l’animo libero e vacuo di merore e perturbazione. Qual tutte cose a te, o Tichipedo mio, non litterato, non essercitato dalla fortuna, non apparecchiato con erudizione alcuna a sostenere o ad evitare gl’impeti avversi, educato in delizie, cresciuto fra uomini assentatori da’ quali mai udisti se non quanto ti dierono giuoco e riso, non interverrebbono, a te dico, Tichipedo mio, non interverrebbono; ogni minimo intoppo aresterebbe ogni tuo corso a laude. Tanto adunque più di me debbi riconoscerti infelice quanto più vivi esposto a ogni strazio della fortuna. Io me truovo da ogni parte tale che la fortuna più può nulla meco essere infesta. Non la temo, ché nulla può tormi. Non la curo, ché nulla più desidero del suo. A te quale non provasti quanto ne’ doni suoi la fortuna più puose fele che mele, certo troppo dolerà non avere premeditato la sua perfidia. E se da ora ivi tu forse pendi con l’animo quanto mi pare nel tuo fronte comprendere, o Tichipedo, pensando quanto facile e pronto e’ casi avversi in un dì, in un momento possono precipitarti di questo tuo stato, certo non vedo possi turbato essere felice».

Così avea Genipatro disputato; adunque fermossi alquanto summirando Tichipedo, quale in sé suspeso e tacito quasi lacrimava; poi si volse a me e con parole a me socquete fra sé stessi pispigliando disse e immutò quel verso di Didone presso a Vir-