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170 profugiorum ab ærumna

cesse alla fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que’ compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l’isola Hyperionis cominciorono a piangere e’ suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne che ’l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno fuss’ella con qualche scusa.

Lasciamo a dietro l’altre cose in pronto esposte e manifeste quale, quando che sia, onesterebbono le nostre lacrime. Chi è che mai pianga pur uno di tanti suoi dì perduti oziosi o adoperati in vizio e vituperio? E qual ti pare mal maggiore o perdere quello che mai si possa, non dico recuperare ma né ristorare, o perdere quelle cose quali siano e nate per perdere e atte a riaverle? Non voglio stendermi in amplificare e coadornare questo luogo. Tanto dico che se pur lice el piangere a noi uomini tinti di lettere, sarà quando o perderemo tempo o commetteremo qualche errore. Ma né qui ancora voglio teco essere rigido e austero. Come in la battaglia el fortissimo milite, ove e’ si sente stracco e oppresso, così tu cedi alquanto ad secundos, at non inter triarios ordines, e ivi astergi el sudor e priemi fuori el sangue circumpresso a quella scalfittura ricevuta in te dove tu non eri bene armato. E ancora non ti inculperò se tu darai qualche lacrimetta delle tue all’uso e l’oppinioni degli altri, quasi segno e testificazione della umanità tua. Ma in questo odi e tu el tuo Omero dove Ulisses dicea: conviensi por modo a’ nostri pianti acciò che di queste femminelle qualcuna vedendoci col viso madido e mezzo non ci reputi forse ebbri. E certo sarà alienissimo d’ogni constanza virile porgersi tale che sia o simile alle femminelle o simile a chi sia poco sobbrio e continente. E sarà nostro officio e proprio d’uomo far non più che solo come fece Enea presso a Virgilio, quale in tanti pericoli suoi e circumstanti mali solo ingemuit et palmas ad sidera tendit. Le molte lacrime, gli acerbi pianti, l’urla e stridi femminili, a nulla sono degni d’uomo.

Appresso de’ Litii, populi civilissimi, era una legge che chi pur volesse piangere si vestisse con veste di qualche femmina. Ma tu, se pure a que’ gemiti virili forse v’aggiugni una e un’altra