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166 profugiorum ab ærumna

espettazioni in quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che ’l tuo lagnarti, e questo tuo condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t’apporti d’alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a’ nostri animi quanto l’attristarsi dell’altre perturbazioni. La libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d’animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c’invecchia. E tu così vedi e’ cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne’ loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te s’acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose buone e opportune e abili per evitare e propulsare e’ pericoli e difficoltà quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e’ tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male curi e’ fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e amenità e piaceri. S’e’ tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi e riconoscevi te subietto ed esposto a’ casi vari e volubilità della fortuna. E che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle condizioni dovute a chi