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102 theogenius

la faccia di Diana posta in luogo del tempio rilevato a chi entra par trista e mesta, e a chi esce dimostra sé lieta e iocunda. Forse così a noi la nostra vita in quale entrammo con tanta tristezza e tante acerbità, a chi poi ne esca la sente dolcissima, e da uscirne simile qual si dice fa el cigno cantando. Cosa niuna dell’altre necessarie da noi richieste dalla natura si truova non piena di voluttà, el mangiare, bere, posarsi, adormirsi e simili, per quali sedati in noi gli appetiti e movimenti stiamo non dissimili a chi sia acquietato in morte. Così el morire possiamo persuaderci forse fie non sanza qualche voluttà. Ma dobbiamo nulla dubitare che seco la morte aporti a noi dolore niuno. Vediamo che morendo si perdono e’ sentimenti, né può dolersi chi non sente. Adunque la morte non aduce, ma leva el dolore. Per questo bene diceano Diogenes e Archelao e gli altri filosofi nulla essere la morte da temerla, quale meno sia grave quando presente si riceve che quando tu la fuggi. Anzi quasi la morte nulla tiene in sé d’acerbità se non quanto l’aspetti. Argomentava qui l’Epicuro filosofo in questo modo: quello che presente non perturba, espettato non debba offendere, e la morte, quando noi siamo, ella non v’è, quando ella sarà, noi restaremo d’essere. E se alcuni la desiderano, hanno costoro in odio la vita; se altri la teme, troppo li piace el vivere. Né sanno che del vivere come de’ cibi dobbiamo eleggere e’ suavissimi, non quelli che siano molti. Ma, nostra inezia, ci pare non potere fare che non ci pesi non perseverare in vita quanto a noi stessi promettemo, e non pensiamo quanta sia la brevità de’ nostri giorni. Sopra el nostro fiume nascono, le notti estive e brevissime, piccioli animali alati quali tanto viveno quanto se stessi gravi e debolissimi sostengono in aria, e di loro saranno rari di sì lunga età che l’alba di quelle notti in quali e’ nacquero non li truovi caduti e spenti, spazio non quasi sofficiente a produrre uno uomo in vita. Ancora comparata alla eternità la nostra vita mortale in quale noi siamo ci debba parere sì minima che, quando ben fussero certi e dalla natura a noi gli anni di Nestoro promessi, poco dovrebbono avere in noi momento perdendogli a perturbarci. E noi stolti pur pensandovi ci perturbiamo di quello che sempre ci sia maturo e necessario. Accusone la molizie nostra. Adunque Cesare