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libro terzo 259


Adovardo. Che adunque ne dite voi?

Giannozzo. Quanto io, della amistà, che so io? Forse potrebbesi dire che chi è ricco truova più amici che non vuole.

Adovardo. Io pur veggo e’ ricchi essere molto invidiati dagli altri, e dicesi che tutti e’ poveri sono inimici de’ ricchi, e forse dicono il vero. Volete voi vedere perché?

Giannozzo. Voglio. Dì.

Adovardo. Perché ogni povero cerca d’aricchire.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. E niuno povero, se già non gli nascessono sotto terra le ricchezze, niuno povero arricchisce se a qualche altro non scemano le sue ricchezze.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. E’ poveri sono quasi infiniti.

Giannozzo. Vero. Molto più ch’e’ ricchi.

Adovardo. Tutti s’argomentano d’avere più roba, ciascuno con sua arte, con inganni, fraude, rapine, non meno che con industria.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. Le ricchezze adunque assediate da tanti piluccatori v’arrecano elle amistà pure o nimistà?

Giannozzo. E io pur sono uno di quelli el quale vorrei più tosto potere da me con mie ricchezze, mai avere a richiedere alcuno amico. Manco mi nocerebbe negare a chi mi chiedesse che prestare a tutti chi mi domandasse.

Adovardo. Puossi egli questo forse, vivere sanza amici e’ quali vi sostenghino in pacifica fortuna, difendinvi dagli ingiusti, aiutinvi ne’ casi?

Giannozzo. Non ti nego che nella vita degli uomini sono gli amici accommodatissimi. Ma io sono uno di quelli el quale richiederei l’amico quanto rarissimo potessi, e se grandissimo bisogno non mi premesse, mai addurrei allo amico gravezza alcuna.

Adovardo. Dite ora voi a me, Giannozzo, se voi avessi l’arco, non vorresti voi tendello e saettare una e un’altra