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libro terzo 247

danaio supplisce a tutti i bisogni, che fa mestiere occupare l’animo in altra masserizia che in sola questa del danaio? E ponete mente, Giannozzo, in queste nostre fortune acerbissime, in questo nostro essilio ingiustissimo, ponete mente la famiglia nostra Alberta, quelli i quali si truovano avere danari quante sofferino manche necessitati che se fossino stati copiosi di terreni. Quanta ricchezza manca a’ nostri Alberti qui fuori di casa nostra, per avere in casa speso il grande danaio in mura e terreni! Giudicate voi stessi quanto sarebbe maggiore il nostro avere, se noi così avessimo potuto portarne gli edificii e i molti nostri campi drietoci come fatto abbiamo il danaio. Stimerete voi forse a noi non fosse testé più utile qui trovarci in danari anoverati quello che là oltre vagliono quelle nostre molte possessioni?

Giannozzo. Bene a me sogliono questi vostri litterati parere troppo litigiosi. Niuna cosa si truova tanto certa, niuna sì manifesta, niuna sì chiara, la quale voi con vostri argomenti non facciate essere dubia, incerta, e oscurissima. Ma testé meco o piacciavi come tra voi solete disputare, o piacciavi vedere in questo che opinione sia la mia, conosco a me essere debito risponderti più per contentarne te, Adovardo, che per difendere alcuna opinione. Io non ti voglio negare, Adovardo, che per sopplire alle necessità e per satisfare alle nostre voglie il danaio non vaglia assai, ma io non ti confesserò però, benché io avessi danari, che ancora a me non manchino molte e molte cose, le quali non si truovano tutte ora apparecchiate a’ bisogni, o sono non sì buone, o costano superchio. E quando le bene costassino vili, a me sarà più grato pigliarmi fatica piacevole in governare le mie possessioni, la mia casa io stessi, e ricormi quello mi bisogna, che d’avere prima al continuo fatica in contenere e’ danari, poi avere travaglio in trovare le cose di dì in dì, e in quelle spendere molto più che se io me l’avessi stagionate in casa. E se non fusse in queste nostre avversità tu qui senti a te più commodo il danaio che le possessioni altrove, stimo ne giudicaresti quello che io medesimo, e avendo quanto fusse