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libro terzo 227

fuori che a chi ella debba in casa, costei monstrerrà meno amare il marito che gli strani».

Lionardo. Prudentissime parole. Ma fustine voi obedito?

Giannozzo. Pur tale ora alle nozze, o che ella si vergognasse tra le genti, o che ella fosse riscaldata pel danzare, la mi pareva alquanto più che l’usato tinta; ma in casa non mai, salvo il vero una sola volta quando doveano venire gli amici e le loro donne la pasqua convitati a cena in casa mia. Allora la moglie mia col nome d’Iddio tutta impomiciata, troppa lieta s’afrontava a qualunque venia, e così a chi andava si porgeva, a tutti motteggiava. Io me n’avidi.

Lionardo. Crucciastivi voi seco?

Giannozzo. Ah! Lionardo, colla donna mai mi crucciai.

Lionardo. Mai?

Giannozzo. Perché dovessino tra noi durare crucci? Di noi niuno mai volse dall’altro cosa se non tutta onesta.

Lionardo. Pur credo vi dovesti turbare se in questo la donna non quanto dovea voi ubidiva.

Giannozzo. Sì, questo sì bene. Ma non però mi li scopersi turbato.

Lionardo. Non la riprendesti voi?

Giannozzo. Eh! Eh! pur con buono modo, ché a me sempre parse, figliuoli miei, correggendo cominciare con la dolcezza, acciò che il vizio si spenga e la benivolenza s’accenda. E apprendete questo da me. Le femmine troppo meglio si gastigano con modo e umanità che con quale si sia durezza e severità. El servo potrà patire le minaccia, le busse, e non forse sdegnerà se tu lo sgriderai; ma la moglie più tosto te ubidirà amandoti che temendoti, e ciascuno libero animo più sarà presto a compiacerti che a servirti. Però si vuole, come feci io, l’errore della moglie in tempo bellamente riprendere.

Lionardo. E in che modo la riprendesti voi?

Giannozzo. Aspettai di riscontrarla sola, sorrisili e dissili: «Tristo a me, e come t’imbrattasti così il viso? Forse t’abattesti a qualche padella? Lavera’ti, che questi altri non