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208 i libri della famiglia

uomini; e chi sarà in disgrazia a’ suoi, costui stolto s’egli stima mai essere bene agli strani accetto. Ma per diffinire la questione tua, presupponi tu, Lionardo, ch’e’ tuoi sieno buoni o mali?

Lionardo. Buoni.

Giannozzo. Se fiano buoni, mi rendo io certissimo molto saranno migliori meco i miei che gli strani. E così ragionevole a me pare stimare ne’ miei essere più fede e amore che in qualunque sia strano, e a me più debba essere caro fare bene a’ miei che agli altrui.

Lionardo. O se fossoro mali?

Giannozzo. Come, Lionardo? Che non sapessino procurare bene? Non sarebbe qui a me, Lionardo, maggiore debito insegnare a’ miei che agli strani?

Lionardo. Certo. Ma se, come alcuna volta accade, e’ v’ingannassino?

Giannozzo. Dimmi, Lionardo, a te saprebbe egli peggio se uno tuo avesse de’ beni tuoi, che se uno strano se gli rapisse?

Lionardo. Meno a me dorrebbe se a uno de’ miei le mie fortune fusseno utili, ma più mi sdegnerei se di chi più mi fido più m’ingannasse.

Giannozzo. Lievati dall’animo, Lionardo, questa falsa opinione. Non credete che de’ tuoi alcuno mai t’inganni, ove tu lo tratti come tuo. Quale de’ tuoi non volesse più tosto avere a fare teco che con gli strani? Pensa tu in te stessi: a chi saresti tu più volentieri utile, a’ tuoi pure o agli altrui? E stima questo, che lo strano si riduce teco solo per valersi di meglio; e ricòrdati (spesso lo dico perché sempre ci vuole essere a mente) ch’egli è più lodo e più utile fare bene a’ suoi che agli strani. Quello poco o quello assai, quale lo strano se ne porta, non torna più in casa tua, né in modo alcuno in tempo sarà a’ nipoti tuoi utile. Se lo strano teco diventa ricco, perché così stima meritare da te, poco te ne sa grado; ma, se da te il parente tuo arà bene, e’ confesserà esserti obligato, e così arà volunterosa memoria fare il simile