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libro terzo 193


Giannozzo. Buone, Lionardo mio, ancora e abundanti. Non paoni, capponi e starne, né simili altri cibi elettissimi, quali s’apparecchiano agl’infermi, ma pongasi mensa cittadinesca in modo che niuno de’ tuoi costumato desideri cenare altrove, sperando ivi saziare meglio la fame sua che teco. Sarà la mensa tua domestica, senza mancamento di vino, pane in copia. Sarà il vino sincero e il pane insieme quanto si richiede buoni, e arai con questi netti e sofficienti condimenti al pane.

Lionardo. Piacemi. E queste cose, Giannozzo, le comperresti voi di dì in dì?

Giannozzo. Non comperrei, no, imperoché non sarebbe masserizia. Chi vende le cose sue stimi tu venda testé quello che potrebbe più oltre serbare? Che credi tu che si cavi di casa, il migliore o pur il piggiore?

Lionardo. Il piggiore, e quello quale pensa non potere bene serbare. Ma ancora alcuna volta per necessità del danaio si vendono le cose buone e utili.

Giannozzo. Così confesso. Ma se costui sarà savio, e’ prima venderà il piggiore; e vendendo il migliore, non fa egli di venderlo più che non viene a sé? Non cerca egli con ogni astuzia fartelo parere migliore che non è?

Lionardo. Spesso.

Giannozzo. Però, vedi tu, chi compera spende quello superchio, e stassi a rischio di non avere tolto cosa falsificata, male durabile e poco buona. Vero? E quando mai vi fusse altra cagione, a me avermi presso tutto quello mi bisogna, a me avere provato più anni le cose mie e conoscerle quanto e in che stagione siano buone, più mi giova che cercarne altrove.

Lionardo. Voi forse vorresti avere in casa per tutto l’anno quanto alla spesa domestica bisognasse?

Giannozzo. Vorrei, sì, avere quello che in casa si può senza pericolo, senza grande fatica bene serbare. E quello che io non potessi bene serbare se non con grande sinistro e troppo ingombro della casa, io quello venderei, e poi al tempo