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libro terzo 191

sospetto. E anche m’informerei molto bene prima chi ne’ tempi di sopra l’avessi abitata, e domanderei quanto gli abitatori ivi siano vivuti sani e fortunati. Sono alcune case nelle quali mai alcuno pare vi sia potuto vivere lieto.

Lionardo. Certo sì, dite il vero. Ramentami d’alcuna e bella e magnifica stanza vederne esperienza: chi vi impoverì, chi vi rimase solo, chi con molta infamia ne fu cacciato; tutti, male arrivati, si dolerono. E sono veramente ottimi questi vostri ricordi, tôrre atta casa in buona e onesta vicinanza, in terra giusta, ricca, pacifica, sana e abondante di buone cose. E, Giannozzo, avendo queste, come ordineresti voi l’altra masserizia?

Giannozzo. Vorrei tutti i miei albergassero sotto uno medesimo tetto, a uno medesimo fuoco si scaldassono, a una medesima mensa sedessono.

Lionardo. Per più vostra consolazione, credo; per non vi trovare in solitudine, per vedervi in mezzo padre di tutti ogni dì sera acerchiato, amato, riverito, padrone e maestro di tutta la gioventù, la quale cosa suole essere a voi vecchi troppo supprema letizia.

Giannozzo. Grandissima. E anche, Lionardo mio, egli è maggiore masserizia, figliuoli miei, starsi così insieme chiusi entro ad uno solo uscio.

Lionardo. Così affermate?

Giannozzo. E faronne certo ancora te. Dimmi, Lionardo, se testé fusse notte e buio, qui ardesse il fanale in mezzo, tu, io e questi insieme vederebbono assai, quanto bastasse a leggere, scrivere e fare quello ci paresse. Vero? E se noi ci dividessimo, tu assettassi te colà, io suso, questi altrove, volendo ciascuno di noi quanto prima vedere bene lume, credi tu il cavezzo quale ci toccasse in parte durasse ardendo quanto prima durava il tutto insieme?

Lionardo. Certo manco. Chi ne dubita? Imperoché dove prima ardeva uno capo, testé si consumarebbe in tre.

Giannozzo. E se testé fosse il gran freddo e noi avessimo qui in mezzo le molte braci accese, tu di queste volessi altrove