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L'ombrello 73


Quando l’orologio alla chiesa di San Giuliano suonava le otto sorgevano in piedi; s’accompagnavano, sempre zitti. E alla barriera si separavano con un freddo «buona notte».

Boldrighi andava adagio alla Porta di Santo Stefano ad attendere il tram, e Ceccuti marciava lungo la circonvallazione, alla volta di Porta Saragozza.

Il dimani passavano ore di pena a rimeditar i dibattiti, le provocazioni, le accuse, le offese, e difese. Borbottavano: — Stasera non ci vado. Già, se ha un po’ di amor proprio, non ci andrà nemmen lui, ai Giardini: gli ho dato del mulo — gli ho dato dell’asino! — Bisognava finirla! Rottura!

Ma un’intima voce rimproverava: «Anche tu però...»; e il rammarico cresceva a disgusto, mutava in pentimento.

Giunta l’ora solita, non resistevano più; sentivano che il loro ultimo legame era indissolubile; cedevano quasi a un destino. E andavano.

Quello che arrivava primo, e aspettava, pareva seder su le brace; guardava fisso alla nota parte o sbirciava di tratto in tratto. Che ritardo! L’amico non veniva. Impermalito davvero? Ammalato? morto? Non avrebbero mai creduto di volersi tanto bene!

Ah eccolo, finalmente! E si sorridevano da lungi. Ceccuti ilare, a qualche passo dal sedile, chiedeva in dialetto adottivo: