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46 | Adolfo Albertazzi |
Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con essa, a udirne, tra le bestemmie e gli oh! e gli uh! e i va là! gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all’animale suo (carogna! - vigliacco! o vigliacca! - ignorante! etc), non sarebbe da giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa fisiologica e patologica.
Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso potere inibitorio che improvvisamente impedisce l’atto volitivo del correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione, mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per l’ostinazione d’andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli manchi affatto l’intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla natura l’esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l’accesso del male a che drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!... L’istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l’ha creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza maniera di svelar il suo martirio, di