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224 | Adolfo Albertazzi |
Reno ingoiava la zuppa. Si spicciava con poche boccate. Pronta, la portinaia alzava la scopa.
— Passa via, brutta bestia!
E il cane, sebbene non sazio, scodinzolava tornando al padrone.
Ma a poco a poco la portinaia s’intenerì. Quegli occhi pieni di riconoscenza già prima che lei aprisse il cancello; quel lieve uggiolare quando lei tardava, quasi voce di preghiera o timore; quel tentativo di balzarle amicamente contro — l’avrebbe baciata a suo modo se essa non si ritraeva svelta e se a lui più non premeva spingere con una zampata l’usciolo e correre al noto angolo — le fecero cambiar apostrofe. La «brutta bestiaccia» diventò in ischerzo un «brutto matto»; e poi il nome proprio di Reno fu amicamente usato nei richiami e nelle carezze.
Ora bisognava alzare la scopa perchè il cagnone non avrebbe voluto uscire così presto dal luogo di delizia. Si accucciava ai piedi della donna, guaiva, parlava. — Tenetemi sempre qui, con voi.
— Gli manca la favella — lo portinaia ripeteva — , ma si capisce lo stesso. Che giudizio! Che giudizio può avere una bestia!
Mentre il padrone gli rimetteva la museruola e la corda al collare, il cane scodinzolava; era però evidente ne’ suoi occhi l’intimo conflitto fra le due affezioni: la vecchia e la nuova.
E un giorno appena fuori di casa sfuggì, con