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218 Adolfo Albertazzi


Invano pregava Dio ogni sera che lo liberasse da questa pena. Non bastava che espiasse, nella miseria, e tenesse l’espiazione quasi elemento della sua ultima vita; no, non bastava: l’afflizione più grande doveva patirla dormendo. E il contrasto fra la sua sorte e la sorte di tutti gli altri, che al soffrire trovavano riposo al dormire, gli imprimeva in faccia quel triste sorriso mesto, come d’ironia mitigata da un doloroso pudore.

Ma diventava una contrazione spasmodica, quel sorriso, se qualche antico conoscente incontrandolo lo salutava e gli porgeva la mano.

— Stringermi la mano? — egli chiedeva mentre porgeva timidamente la sua.

E con fatica, quasi gli mancasse il respiro, rispondeva alle dimande spietate per essere pietose. Le figliuole? Una era suora, a Lugo; l’altra, moglie di un avvocato, stava a Firenze.

— Perchè non andate con lei?

Rispondeva:

— Capirete...

Già: capirete che un avvocato che si stima non può mantenersi tra i piedi il suocero in voce di aver rubato, e il conte Sesti, da cui era stato cacciato per ladro, aveva tante conoscenze, in tutta Italia!

— Non mi avanza che questo — aggiungeva Procolo Granari accennando al cane.

— Fatevi coraggio. Procolo!

Egli si avviava scuotendo il capo senza dir