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La cassaforte di don Fiorenzo 33


E i capponi bisognava venderli. Oh i cappelletti in brodo! E il riso era la minestra dei dì solenni. Oh una torta vanigliata! E grazie se gliene toccava, rare volte, alle feste d’altre parrocchie!

I colleghi non scorgevano che fatica egli durava a contenersi nei loro pranzi e a ingoiar acquolina. Piuttosto essi lo accusavano di poca sollecitudine, di poco zelo nel suo ministero.

A torto? del tutto? No? Forse no. Perchè..., perchè egli non era stato abbastanza sincero nel confortare gli infelici sentendosi più infelice di loro; non era stato abbastanza ardente e puro nei riti essendo angustiato sempre dagli affari e dai debiti, quando non erano i terrori delle cambiali in scadenza, delle citazioni e dei sequestri.

Maledetti i quattrini!, allora.... Ma adesso, oh!, adesso che gli ridavano la pace e la gioia, eran benedetti, dentro quella cassaforte, anche dall’invulnerabile custode!

— Signore, mi raccomando a Voi! — ripetè don Fiorenzo; e nell’invocazione, congiunse al desiderio d’essere perdonato delle sue mancanze, la piena fiducia di meritar tuttavia aiuto e difesa. Quindi tornò a guardar fuori di sè.

Il sole risplendeva libero, ora, d’ogni velame; con raggi vibranti di vita inesausta rianimava

albertazzi, il diavolo nell’ampolla. 3