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Cinquantamila lire | 143 |
di scherno e di rabbia Arnaldi s’abbandonò a meditare, a pregustare la vendetta. Oh sfogarsi! sfogare l’amarezza dell’onta patita e l’onta dell’ipocrisia a cui era stato trascinato come in un baratro; sfogare tutto l’odio che gli si era addensato in veleno nel cuore; esasperare con voluttà di martirio la ferita dilaniante; gettar la maschera, e accusare, e calpestare l’infame prostrata, nella confessione e nel rimorso, ai suoi piedi; o colpirla, ammazzarla se sorretta dalla passione e insolente!
Che benefizio nell’anima e nel sangue, a immaginare il castigo tremendo, mortale! Ammazzarla!
Ma era illusione fugace. A poco a poco intravvedeva che a lui non era concesso — no — nemmeno l’inconsulta attesa della catastrofe che fosse, per sua mano, tragica!
No: egli, povero uomo, doveva riprendersi tosto, ragionare, riflettere. No. Non gli era possibile vendicarsi in tal modo; non doveva ucciderla; non cacciarla, sgualdrina, di casa; non trascinarla a un tribunale. No. Perchè? Perchè sarebbe uno scandalo!
Era caduto in una contradizione; la contradizione in cui s’era messo non tardò a stringerlo, ad attanagliarlo, a soffocarlo. Non poteva vendicar il suo onore senza provocar uno scan-