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Il chiodo 121


V.

Compiuti i diciott’anni, Celso Dondelli non aveva ancora dimostrata miglior vocazione che quella di star allegro e di corbellare il prossimo. Dalla scuola del filosofo aveva però acquistata tanta coltura da superare i coetanei studenti nei regi licei. — Il lievito c’è — diceva il conte — ; lasciamolo fermentare.

E scorgeva sempre un’intenzione seria, un motivo ragionevole in ogni scherzo o birichinata che il suo protetto faceva. Questa benignità, ingenua o filosofica che fosse, trovava un cuore non ingrato o sleale. Per il suo protettore il giovine si sarebbe messo nel fuoco; e il conte, che sentiva l’affetto sincero nella confidenza di lui, lo ricambiava in modo così aperto che già tutti dicevano: — Lo adotterà per figlio.

Se non che all’Agabiti era rimasta una parente, press’a poco dell’età di Celso; una pronipote, per via di sorella. Allevata in collegio a Firenze, la signorina, orfana, tornò alla piccola città nativa assai di malavoglia; e temeva che lo zio la prendesse seco, in quella casa antica, con quella serva padrona.

Fu affidata invece alla custodia e alle cure