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Che render non poria di seme il frutto.
155E se dopo gran sete asciutto e stanco,
Sia da nube leggier di sopra asperso;
O misero cultor! sia lunge allora,
Sia lunge allor da lui l’aratro e ’l bue;
Perché, solcato sol, tal rabbia e sdegno
160Prende col suo signor, ch’all’anno terzo
Non si degna mostrar le spighe appena.
Ma se ’l vomero tuo, la terra aprendo,
Netto e lucido vien qual puro argento;
Lieto e sicuro allor, doppiando l’opre,
165Segui l’util lavor; ch’al tempo amato
Fian la speme e ’l desio dal frutto vinte.
Or prendendo il villan (ché l’ora è giunta)
Dal chiuso albergo, e la famiglia insieme,
I semplici legumi, e l’altre biade
170Che nel felice agosto in seme scelse;
Cerer chiamando e chi dei campi ha cura,
Alle fatiche sue larga mercede;
Già commetta al terren la sua sementa.
Sian la fava pallente, il cece altero,
175Il crescente pisel, l’umil fagiolo,
La ventosa cicerchia in parte dove
Senza soverchio umor felice e lieto
Trovin l’albergo lor: la lente pure
Dello steril sentir non è sì schiva.
180Venghin dopo costor l’orzo e l’avena: