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liii
     Mentre così diceva, uno scudiero
Del magnanim’Arturo, Alcandro detto,
Gli presenta un fortissimo corsiero,
Tra mille ch’ei ne pasce il più perfetto:
Ben membruto a ragione, alto e leggiero,
D’animo invitto e fero nell’aspetto,
Di candido colore, e tutto intorno
Di vaghissime ruote il manto adorno.
liv
     Giunto ov’è il buon Tristano a terra scende,
Et a lui reca in man l’aurata briglia:
Ridente in vista il cavalier la prende,
Tutto ripien di dolce meraviglia,
E grazie al suo gran re larghe ne rende
Con voce umile ed inchinate ciglia;
Indi al montar non mette staffa in opra,
Ma d’un salto leggier gli salta sopra.
lv
     Il medesimo Alcandro gli presenta
Il suo scudo maggior di sette scorze,
Di così saldo acciar ch’ei non paventa
Ostinato furor di umane forze:
Ove il leone aurato s’argomenta
Con l’unghie di mostrar ch’abbatta e sforze
Ciascuno altro animal che con lui perde,
Posto in seggio real di color verde.
lvi
     Il fino elmo da poi sì duro e greve
Ch’era troppo a ciascun, gli pone in fronte,
Per la forza e per l’uso a lui sì leve
Che di men non avea le membra pronte.
Sopra l’alto cimier, carco di neve
D’argentato color surgeva un monte,
Nella cima del quale in più d’un loco
Si vedean fiamme uscir d’ardente foco.
lvii
     Porgeli i guanti, e l’asta poi sì grossa
Che nullo altro dell’oste la sostiene,
Fuor che sol Lancilotto, che di possa
De i miglior cavalier la palma tiene.
Prendela il buon Tristano, e poi che scossa
L’ha in giro alquanto per veder se bene
Corrisponde a ragion la cima al basso,
Rivolse al suo gran re la vista e ’l passo,
lviii
     Dicendo: Alto signor, col voler vostro
All’impresa onorata addrizzo il piede,
In cui spero adeguar col valor nostro
Quella avuta di me sì larga fede;
E s’altro non potrò, l’erboso chiostro
Fia del mio sangue sì famoso erede
Che non potrà mai dir che indegno fusse
Il core almen del buon Meliadusse.
lix
     Così detto altamente, al gran nemico
Colmo di bel desio la fronte volge.
Ciascun ch’è ’ntorno dello stuolo amico
Tra speranza e timor l’animo involge:
Qual uom sia più tra lor nell’arme antico
E ch’ha veduto più seco rivolge
Del fero Seguran, tacito in seno,
Il sapere e ’l valore ond’è ripieno.
lx
     L’esperienza poi, che ’l tutto insegna,
Più che nell’avversario era in lui molta,
E cangiato avea ’l core in cui più regna
Il voler giovinil ch’al furor volta;
Nè tale era però che ’n lei si spegna
De’ verdi anni miglior la forza accolta,
Ma del cerchio mortal premea quel punto
Ove ’l senno e ’l vigor va insieme aggiunto.
lxi
     Fu d’infinito ardir, come il mostraro
Le palme innumerabili e i trofei;
Orgoglioso il faceva il sangue chiaro
Ch’ei pensava venir da i primi dei:
Perchè l’unico Febo, non pur raro,
Onde il sommo Giron discese e quei
Che fer poi lui, pensavan della prole
Esser nati quaggiù del proprio sole.
lxii
     Era il giovin Tristan dall’altra parte,
Non pervenuto ancor ne i cinque lustri,
Spronato da i desir che ’nfonde Marte,
E dal volere eguar gli antichi illustri.
Ben tutta conoscea la forma e l’arte
Qual più deggian seguire i duci industri,
Mai d’usarle sdegnava, e la virtude
Sol nell’invitta spada esser conchiude.
lxiii
     Ma l’intrepida forza era in lui tale
Che d’altrui sormontava ogni altra cura,
Tanto ch’a Seguran per quella eguale
Il poteva stimar, chi ben misura;
Ma come sempre avvien ch’or scende or sale
In chi brama or la speme or la paura,
Il britannico stuol, che ’l vede accinto,
Or dell’una or dell’altra era dipinto;
lxiv
     E riguardando il ciel dicea: Signore
Ch’addrizzi con ragion sempre ogni torto,
Rendici il pio Tristan con lieto onore,
E resti Seguran prigione o morto.
Se pur di lui pietà ti stringa il core,
Non sia con onta nostra e disconforto,
E ’l devoto pregar tanto ne vaglia
Che sia pari tra lor l’aspra battaglia.
lxv
     E non men di costor l’oste d’Avarco
Di contrarie preghiere il ciel percuote:
Pur d’assai men timor l’animo ha carco,
Chè sa quanto l’Iberno in guerra puote.
Ma perchè quel dell’arme è dubbio varco
Troppo suggetto alle volubil ruote
Della cieca fortuna e disleale,
Il timor della speme aggrava l’ale;
lxvi
     E tanto più , che la rovina importa
Di tutto insieme il perder Segurano,
Perchè solo è di lor sostegno e scorta
Il suo lunge vedere e la sua mano:
Senza le quali ogni fidanza è morta,
E lo scampo di poi s’aspetta in vano.
Così ’l soperchio pubblico periglio
No ’l lassa rimirar con lieto ciglio.