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lxxxi
     E ’l suo fido Medonte, che le chiavi
Di quanto è il suo migliore in man tenea,
E ’n tutte aspre fortune e casi gravi
Mai sempre il pio signor seguito avea;
E quantunque l’età le forze aggravi
E lo stanchi talor, non s’arrendea,
Che, mal grado di lei, pur ancor vuole
L’uficio essercitar che giovin suole.
lxxxii
     Poi di tutti il primiero ha il re Vagorre,
Senza il qual mai non è dovunqu’e’ vada;
Nè saprebbe un vestigio in terra porre
S’ei non sia dolce scorta alla sua strada.
Sol gli puote i desir legare e sciorre,
Render foschi e seren, come gli aggrada:
Perchè tanta ave in lui speranza e fede
Che sol con gli occhi suoi discerne e vede.
lxxxiii
     Con questi quattro adunque ivi entro andato
E serrata di fuor la molta gente,
Truova ampissimo il loco, e circondato
Di mille gradi e mille ornatamente:
L’un sopra l’altro in tal misura alzato,
Che lassando il cammin che agevolmente
Doni spazio all’andar di chi va intorno,
Resti a quel ch’ivi sia largo soggiorno.
lxxxiv
     In bei serici drappi erano stesi
E con ordin leggiadro in sè distinti
Ivi gli aurati, vaghi e ricchi arnesi,
Qui i tessuti di seta e d’ostro tinti.
Sovra quei poscia in alto erano impesi
Gli stendardi e ’ trofei de i duci vinti,
Ivi l’armi pregiate, ivi la maglia
Di cavalieri e re presi in battaglia.
lxxxv
     Poi in cima a tutti gli altri rilucea
Dell’avo Stilicon lo scudo altero,
Ove in purpureo campo si vedea
Quell’uccel ch’ha nell’aria il sommo impero
Che in argentata mano umil sedea
Con laccio aurato a i piedi, e ’l guardo fero
Vèr lui basso torcea, doglioso e schivo
Della sua libertà sentirsi privo.
lxxxvi
     Nè lunge era da quel l’insegna antica,
Mille volte spiegata in aspre guerre
Or dell’etrusco sen nell’aria aprica
Or sotto l’Alpi e nelle insubrie terre,
Ove una donna appar che ’n vista amica
Un feroce leon mostra che sferre,
Le catene spezzando ond’era stretto,
Mentr’ei dolce le bacia il bianco petto.
lxxxvii
     Di cangiante colore ornata er’ella,
Il leon d’oro, e tutto l’altro oscuro.
Lucea sovr’essa minacciante e fella
E mischiata in color di sangue impuro
Con lunga coma una crinita stella
Che traeva il velen dal freddo Arcturo.
Poi con l’altre arme sue pendea vicina
Di tempra singular la spada fina;
lxxxviii
     E tutte queste al gotico Alarico,
Già di Roma infelice possessore,
Fur mandate da Onorio, il gran nemico,
Con mille altri bei don carchi d’onore
Poi che intese Placidia in sì pudico
Stato esser seco e ’n sì fraterno amore,
L’alma sorella sua, che ’n sangue e ’n doglia
Del barbarico stuol divenne spoglia:
lxxxix
     E poi quando inviò nel lito ispano
Il goto imperador di Stilicone
Il giovincel nipote al suo Marano,
Questa insegna e quest’arme anco ripone
Tra i tesor che gli dà, perchè lontano
Riguardandola spesso aggia cagione
Di rimembrar che sia del sangue sceso
Già dal popol roman sì forte offeso.
xc
     Poc’oltra avea dell’aquitane prede
Del suo padre e di sè larghi trofei.
Del santonico Zeto ivi si vede,
Eterno testimon de i pianti rei,
Lo scettro appeso e la real sua sede,
Mal custodita allor da i primi dei:
Perchè ’n lavor di gemme ornato e vago
Di Giove e di Giunon vi avea l’imago.
xci
     Del petragorio Arato, ch’avea il regno
Ove tra i monti ha il corso la Dordona,
Apparia de’ gran danni altero pegno,
Perchè v’era il suo scudo e la corona.
In quel de’ suoi dolor portava segno,
In cui fero destin cader lo sprona,
Chè di fosco colore il campo tinto
Tutto di bianche lagrime era cinto;
xcii
     Questa di ricche gemme e varie ornata
Di forma imperial surgeva in alto,
Perchè ei dicea che la sua stirpe nata
Era di quei del magno Galealto,
Nella pia region che fortunata,
Fuor di caldo e di giel soverchio assalto,
I più antichi appellaro, e d’indi poi
Stese in quella provincia i confin suoi.
xciii
     Poi del re de i Pitton nomato Ibero
Le militari insegne eran sospese,
Ove in vermiglio seno un grifon nero
Gli aspri artigli mostrava e l’ali stese.
L’elmo ch’un bianco cigno ha per cimiero,
Assiso sta sopra il dorato arnese;
Lo scudo è in basso, ove un lucente sole
Nutre al verde terren rose e viole.
xciv
     Mill’altre spoglie poi di duci e regi
Veston tutto d’intorno il ricco loco,
Che ’n memoria ivi son de i fatti egregi,
Che sempre luceran d’illustre foco.
Or quei tanti trofei, quei tanti pregi,
A i quai sol riguardar sarebbe poco
D’un sole intero il corso, il re Clodasso
Fanno in dubbio restar pensoso e lasso.