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clxv
     Quando ritorna poi verso Boote,
Che più lunge a Nettunno ebbe la sede,
Ove nel sen del Rodano si puote
Veder Sorga e Durenza che s’assiede,
E dove al fianco rapida percuote
Lisera, e di se stessa il face erede,
Qui Valenza gentil lassando a tergo
E là il sacro Avignon, di venti albergo;
clxvi
     Con quel ch’ad essi d’ognintorno giace,
Diede a’ suoi capo e duce Matanasso.
Ciò che più all’Alpi gelide soggiace
Dell’Allobroge valli al chiuso passo,
Ove al saggio Granopoli non tace
La Lisera che vien di sasso in sasso
Fino alla nobil Vienna, ha la sua schiera
Donata a Marabon della Riviera.
clxvii
     Con Sismondo da poi, suo primo figlio,
Vien Gunebaldo, il fero Borgognone,
Che del sangue fraterno era vermiglio
Tre volte stato: e funne empia cagione
Perfidia, crudeltade e rio consiglio
Di tòrre a quei le debite corone:
E menar tutti quei che ’ntorno stanno
Di Sona all’onde, che sì dolce vanno.
clxviii
     D’altri popoli appresso e d’altra parte,
Della Rocca signor venia Verralto,
Menando quei ch’al mezzogiorno parte
Da i Galli il Pireneo dov’è più alto
E del Cantabro ocean l’onde sparte
A i colli Biscain dan fero assalto,
Con quei d’Asturia, a cui tra’ sassi e l’acque
L’opera pastoral più d’altra piacque.
clxix
     Quei dell’aspra Galizia han Ferrandone
Il Pover, ch’ebbe in man tutto il paese
Che da’ Ravanei monti s’interpone
Fin dove il fiume Linia il corso stese,
Ove il gran promontorio al mar s’oppone
Che dal fin della terra il nome prese;
Gli altri che d’indi van sopra il Düero
Mena Calarto il Picciolo, ma fero,
clxx
     Con quei che bevon di Pisarga l’onde,
Astorga e Borgo e di Palenza appresso
E di Nazera ancor, che si nasconde
De’ monti all’ombra ond’è ’l Navarro oppresso.
Quei lungo il mare infin là dove abbonde
Il Tago d’oro nell’arene impresso
Con tutto l’altro ove Mondaga corre
Diede Lisbona in guardia ad Esclaborre.
clxxi
     Quei ch’abbraccia il Duero e Guadïana
Più contr’all’Orse alquanto e l’Orïente,
Ove ha Tolleto la città sovrana
Che di molte giornate il mar non sente,
Safaro conducea, persona estrana,
D’altronde uscito che d’Ibera gente:
Ma perch’era fratel di Palamede
Avevan somma in lui speranza e fede.
clxxii
     Quei che son poscia in su ’l famoso Beti,
Onde il nome ebbe la provincia prima,
Infin là dove loro il passo vieti
Serra Morena con l’altera cima,
Ov’è tra i colli erbosi e i campi lieti
Cordova, che più d’altra ivi si stima
E l’Ispali, ch’adorna l’oceàno,
Merangiò della Porta han capitano.
clxxiii
     Poi quei più verso il Freto e ’l mezzogiorno,
Che si veggion vicin l’antica Gade,
Ove cinte da’ monti d’ogn’intorno
Può Granata veder le sue contrade;
Così l’altro paese, assai più adorno
Di fior che ricco di felici biade,
Di Maliga, di Murzia e Cartagena
Il forte Morassalto in guerra mena.
clxxiv
     Valenza, che nel sen della Montagna
Giace Idubeda, ed ha dall’occidente
Il Godamoro che ’l terren le bagna,
Come fa il Sema quel dell’orïente,
E con le rive al lito s’accompagna
Ch’all’onda Balearida consente,
De gli abitator suoi diè in mano il freno
Per questa guerra al perfido Druscheno.
clxxv
     Quei che dell’acque del reale Ibero
Bevon nel primo fonte d’ond’egli esce,
Con quei ch’al mezzo corso, ove più altero
Con la Singa e col Sicori s’accresce,
Infin ch’al mar, privato del suo impero,
Presso a Tortosa il doppio corno mesce,
Han per duce il re Loto; e gli altri poi
C’han più verso Pirene i campi suoi:
clxxvi
     Dico l’antica e chiara Taragona
Con quanto abbraccia il periglioso lido
Ov’è l’ornata e vaga Barzalona
Ha il suo ripien d’odor leggiadro nido,
Infin là dove ancor la fama suona
Del tempio di Ciprigna, allor più fido
Forse ch’oggi a i nocchieri, capitano
Han chiamato Roderco, il crudo Alano.
clxxvii
     Ilba vien poi, del gran Teodorico,
Degli Ostrogoti il re, che in Roma allora
Teneva il seggio, sommo duce antico,
E di Geppidi stuol menava ancora:
Nè ’l mandava quel re con core amico
Per trar Clodasso di miseria fuora,
Quanto perch’al re Franco Clodoveo,
Benchè cognato suo, grand’odio aveo.
clxxviii
     Appresso il re degli Eruli Odoacro,
Ch’a Ravenna infelice il giogo pose,
Menava il popol suo superbo ed acro
Contr’all’umane e le celesti cose,
Che più d’un nome e più d’un tempio sacro
Distrusse e spense già, non pure ascose.
L’ultimo fu Clodino, il Marte detto,
De’ figliuoi di Clodasso il più perfetto;