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     Vien Gallinante poi, di Giron figlio,
Di Girone il cortese, il maggior duce
Che giamai fosse o d’arme o di consiglio,
E di vera bontà divina luce:
Ch’or piangeria, se con l’aurato giglio
Non vedesse il figliuol, ch’oggi conduce
Seguran suo cugin contro alle squadre
Le quai più che se stesso amava il padre.
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     Fu il nobil giovinetto capitano
Di quei di Mona, l’isola cui bagna
D’Ibernia il mar, ch’al lito prossimano
Quasi congiunta appar con la Brettagna;
Poi di paese e popolo lontano
Ch’altro cerchio ricuopre, altr’onda bagna,
Venne Brunoro il Nero, con la schiera
Di quei che son tra ’l Reno e la Visera,
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     Dell’Usfalia e di Frisia, ove in mar cade
La torba Amasia, e quei due primi insieme.
Di quei che lungo l’Albi han le contrade
Che la Selva Semana adombra e preme,
Turingii e Misnii, e per più basse strade
Di Bransuic le fredde parti estreme,
Mena le schiere il fero Dinadano,
Che di Brunoro il Nero era germano.
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     I Sassoni, che pur tra l’Albi e l’acque
Del gelato Svevo han fredda sede,
Volser duce Faran, che tra lor nacque
E di barbaro orgoglio a nessun cede:
E cui la cortesia così dispiacque
Che virtude estimava il romper fede.
Gli altri di Sclesia sopra il fiume Odero
Ebber per capitan l’ardito Estero.
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     I feroci Boemi, ch’entr’al seno
Della frondosa Ercinia ascosi stanno,
Della Fontana il nobile Drumeno
Per conducergli a guerra eletto s’hanno;
Quei di Pomeria, a cui bagna il terreno
L’oceàn dove a lui correndo vanno
La Vistula e l’Ortel, per capo e duce
Hanno Arduino il Fellon, che gli conduce.
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     L’Assia, ch’al monte Anobe in mezzo giace
E quasi sopra il Ren dritta si stende,
Tutto il popol vicin ch’a lei soggiace
Fa che ’l Nero Perduto in guardia prende.
La Svevia, avversaria d’ogni pace,
Più verso l’Alpi, ond’il Danubio scende
Tra i Vindelici, Retii e l’Eno e Lico,
Presero in duce Bronadasso antico.
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     Il Norico terren, ch’all’occidente
Ha l’onde d’Eno e dal settentrïone
Riga il Danubio, e ’l cinge all’oriente
Il Cetio, c’ha nevosa ogni stagione,
A Bustarino il grande la sua gente,
Nel qual molto si fida, in guardia pone.
L’Austria, che stende il suo valloso piano
Dall’Istro e ’l Narabone al giogo Albano,
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     Diè Rossano il Selvaggio duce a’ suoi,
Che fu sempre fra lor di sommo onore,
L’altra, che col Danubio scende poi
Tra ’l Savo e ’l Sao, Pannonia inferïore,
Fortunato e Grifon, fèr duci voi,
Perch’odiaste Tristan d’acceso core:
Poi di quei tra l’occaso e ’l mezzo giorno
Gente infinita avea Clodasso intorno.
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     Quei d’Aquitania, in cui l’oceano inonda
Pirene e ’l promontorio curïano,
Ove Aturia e Sigmen riversa l’onda,
Non molto l’un dall’altro di lontano,
Mena Nabon, che nacque alla sua sponda
Del Visigoto sangue e dell’Alano,
Chè Rosmunda la bella era sua madre,
Ch’Alarico di lui fece esser padre.
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     Menò la gente Terrigano il grande
Del fertile Santonge e del Pottiero,
E dove a Burdigallia l’acque spande
L’ampia Garona con sembiante altero;
Gli altri che son tra le pietrose lande
Del terren limosino alpestre e fero,
Di Caòrs, Perigorto e i vicin loro,
Han per duce il valente Palamoro.
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     Poi seguendo a levante i Pirenei
Dov’è la famosissima Tolosa,
L’onorata Nerbona, che con lei
Contese un tempo e ne divenne odiosa:
Ma piangea seco allora i tempi rei
Che l’avean posta in servitù noiosa
De’ Visigoti sotto il duro impero,
Che diè lor capitan l’empio Agrogero.
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     Gli altri che son su l’onde di Ruscena,
Dell’Orbio e di Latago più presso
Ov’al Gallico mar la torba arena
Rodan col doppio corno avvolge in esso:
E ’n cui stagnando l’acqua intorno piena
Di trista impressïon fa l’aria spesso,
Tal che Nemauso e Monpelier ne piange,
Che ’l frenato Nettunno ivi non frange,
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     Ebber duce Galindo, e quella gente
Ch’oltr’a l’Ostie del Rodano ha Provenza,
D’Arli real, ch’allora ebbe, e sovente,
Sovr’ogni altro vicin somma eccellenza,
D’Acqua Sestia e Marsilia, ch’altamente
Già mantenea la greca riverenza,
Tutta per capitano avea Margondo,
Ch’a nessun altro in arme era secondo.
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     Menava Gracedon della Vallea
Quei ch’a levante son tra ’l monte e ’l mare,
Ov’ha il porto Tolon, che s’e’ potea
Meglio i venti schivar non avea pare:
Ov’il Foro di Iulio ancor piangea
Che pure allor tante memorie chiare
Furo in lui tutte spente, e poco meno
D’Antipoli faceva il lito ameno.