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xi
Sì ch’io fossi securo che le mani,
Le mani al mio buon seme crude e fere,
No ’l facciano esca di bramosi cani,
D’avvoltori, di corvi e d’aspre fere;
E che i nemici miei pressi e lontani
Il duro scempio vengano a vedere,
Dicendo: ’Tale avegna al suo parente,
E di quanta ave intorno amica gente’.
xii
Con tai duri lamenti a terra giace
In tra cenere immonda e polve avvolto,
E d’oscuro color macchiati face
I canuti capei, la barba e ’l volto;
Nè la notte nè ’l dì ritrova pace,
Senza chiuder le luci o poco o molto;
Del cibo prende pur talora a forza,
Che alcun servo migliore a ciò lo sforza.
xiii
Ma che ’l dì duodecimo passato
Sente Vagorre il re che Lancilotto,
Doppo il funebre onore a fin recato,
Avea con lunga pompa ricondotto
Di Galealto il corpo nel sagrato
Tempio al sepolcro; fu da speme indotto
A creder che lo sdegno e l’ira omai
Nel generoso cor sia meno assai.
xiv
Però che a mille prove conoscea
Quanto era chiaro, nobile e pietoso
Degli altrui danni e d’altrui sorte rea,
E di giovare a’ miseri bramoso;
Onde giunto a Clodasso gli dicea:
Date al vostro dolor qualche riposo,
Ch’io penso di recarvi oggi vicino
Il vostro altero genero e Clodino;
xv
Se vorrete, Clodasso, consentire
Ch’io mi mostri oratore in vostro nome
Al figliuol del re Ban, ch’omai dell’ire
Già deposte dal cor le gravi some
Voglia lassar da’ nostri seppellire
I due regi illustrissimi, sì come
Convien di loro all’alta nobiltade,
E d’un tal vincitore alla pietade;
xvi
E ch’oltra il grande onor gli faccia offerta
Di preziosi doni in sua mercede,
Per l’una e l’altra via mostrare aperta,
Ove il supremo onore e ’l premio sede;
Che ben d’aspra durezza ha l’alma inserta,
Chi dubbioso dell’una al fin non cede,
Poi che più volte s’ha rivolto in seno,
Ch’elle vengan congiunte, ad ambe almeno.
xvii
Il doglioso Clodasso poi ch’alquanto
S’ha il cor compresso e che ’l rugoso volto
Bagnato ha intorno di più largo pianto,
E di più trista cenere ravvolto,
Risponde sospirando: Ben che tanto
Non mi dorria dal mondo essere sciolto,
Quanto il pregar quel crudo, onde rimase
Son senza tai figliuoi le nostre case;
xviii
Pure il paterno uficio e la pietade,
Senza speranza aver, fa ch’io consenta,
Che voi prendiate in van per noi le strade
A far dolce venir chi ne tormenta;
Con fargli offerta di sì grandi e rade
Ricchezze che porriano assai contenta
Render di Mida ancor l’avara voglia,
Che di vita per lor se stessa spoglia.
xix
E chiamato Astrabor comanda e dice:
Gite dove il mio ben giace più caro
E la corona regia, onde felice
Mi tenni un tempo e sì pregiato e chiaro,
Prendete in prima e sia dono infelice
A chi n’ha qui ripien di pianto amaro;
La qual di sì gran gemme e tali è piena,
Ch’altre tante ne son nel mondo a pena.
xx
Poi la vesta real, là dove l’oro
Tra smeraldi e rubin rimane ascoso,
La qual soletta avanza ogni tesoro,
Che quell’empio sperar già mai fuss’oso;
Lo scettro ancor, che qualunque altri foro
Tra’ Persi o gl’Indi al tempo più famoso
D’assai pregio trapassa e di lui sia
Ogni ornamento della regia mia.
xxi
Che poi che piace al ciel ch’ei m’aggia privo
De’ più cari ch’avea del regno eredi,
D’essi e d’ogn’altro ben restando schivo,
Ogni cosa mortale ho sotto i piedi;
Or gite adunque tosto, acciò ch’io vivo
Possa compor dentro a marmoree sedi
I due terrestri vel di quei, che soli
Fur di vera virtù lucenti soli.
xxii
Non molto a ritornar tarda Astraborre,
E i domandati arnesi ivi entro adduce;
Dagli in potere appresso di Vagorre,
Che dell’aspro viaggio fosse duce;
Ei sovra ornato carro gli fa porre,
Che d’oro intorno riccamente luce,
Da quattro gran destrier tirato, a i quali
Non vede altro paese molti eguali.
xxiii
Muove esso innanzi e solo in compagnia
Ideo ch’è il primo araldo seco mena,
Che ben sapeva omai del gir la via,
Chè più volte calcò l’istessa arena;
Sovra un picciol caval monta, che sia
Di conducerlo a fin possente a pena,
Di brun vestito, ma l’araldo intorno
Degli usati color si fece adorno.
xxiv
Così quei due, con Filigante insieme
Giovin d’alto valore e di gran fede,
Che in abito assai vile il carro preme,
E i tiranti corsier gastiga e fiede,
Vanno oltra pur, come chi spera e teme
Di ciò che a lui vicino incontra o vede,
In fin che già del fosso che circonda
Il nemico oste lor sono alla sponda.