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ix
     Stavan queste nel mezzo, e ’n giro poi
Nell’estremo di tutto facean fregio
Gli archi stessi, gli strali e i dardi suoi,
Ch’alla vaga Diana erano in pregio:
Nè le reti selvaggie nè i lacciuoi
Il oblio pose il dotto fabbro egregio,
Ch’ivi tutte apparian con sì bell’arte
Ch’a Natura togliean la miglior parte.
x
     E nel giorno medesmo che gli diede
L’alta fata reale il ricco arnese,
Gli dicea che con quello avesse fede
Di largo soggiogare ogni paese;
Del qual doppo lunghi anni essere erede
Uno Enrico devea ch’ad ali stese
Manderia ’l nome suo dall’Era al Gange
E per quanto ocean tra i poli frange.
xi
     Gli spallacci sovrani al loco pone,
Che ’n tra quella e ’l braccial l’omero accoglie;
Cingeli il brando poi che Pandragone
Fè più volte carcar di opime spoglie
Del popolo inimico Anglo, Sassone
Che del suo bel terren varcò le soglie;
E gli diè sovra ogni altro cavaliero
Del marziale onor lo scettro altero.
xii
     Questo, morendo al fine, in man ripose
Il valoroso re del figlio Arturo
Dicendo: L’opre sue sempre famose
Fecer che ’l regno a voi lascio sicuro.
Aggiate lui sovra l’umane cose
In riverenza somma, e al tempo duro
Che vi apparecchie mai l’aspra fortuna
Questa spada cingete sola ed una.
xiii
     I quai detti ubbidìo, ch’a i gran perigli
Non si mise unque poi senza aver lei,
Con la qual sempre mai rendeo vermigli
Di sangue i campi tra i nemici rei;
Nè d’altro brando i micidiali artigli
Di morte furo a gli infernali dei
Larghi de’ suoi trofei quanto di questo,
Che feo più d’un figliuol del padre mesto.
xiv
     Di preziose gemme chiare e dure
Era il fodero intorno rilucente,
Ch’avanzavan del sol le luci pure
Quando più bel si mostra all’oriente:
Conteste in oro tal, che stan sicure
Al percuoter di colpo aspro e possente.
Simil le guardie ha in alto, e ’l pone in cima,
Che di prezzo infinito il mondo stima.
xv
     Con questo, e del medesimo lavoro,
La cintura ricchissima pendea,
Ch’alla parte minore apparia l’oro,
Che di vaghi color l’altro splendea
D’adamanti e rubin posti fra loro
Di rose in guisa care a Citerea,
E di vaghi zaffir, non già smeraldi
Che dell’arme al ferir non restan saldi.
xvi
     Poi per più sicurtà greve piastrone
Il suo caro Agraven di sopra mette,
Sì ch’aggia di temer nulla cagione
D’aste colpir, di spade o di saette,
Qual già nella sua patria regione
Al furor de i giganti in prova stette.
La buffa locò solo al destro lata,
Perchè sia dallo scudo il manco armato.
xvii
     Sovra l’arme lucenti ultima cinge
La ricca imperatoria sopravesta,
Che con gemmato nodo alta si stringe
All’omer manco, ove non sia molesta,
E sotto al destro braccio alato spinge
Il lembo adorno, che scherzando resta:
Ove in campo celeste seminate
Son le corone sue reali aurate.
xviii
     Il feroce corsiero indi gli adduce
Ch’ei suol sempre menar nell’alte imprese,
Sopra cui, qual l’aurora, rendea luce
Il tutto di fin or fregiato arnese.
Il frontale argentato in alto luce,
In cima al qual leggiadramente stese
Sottilissime piume bianche e nere
All’aure ventilar si pon vedere.
xix
     Il crin come la fronte era coperto
Del più sicuro ferro e del men greve,
Nè in tra l’arme nemiche giva aperto
Quel che i colpi maggior primo riceve:
Che ove al falcato collo viene inserto
Cinto il bel petto avea spazioso e leve
Di doppie pelli, che indurate al foco
Piaga d’asta o di stral curavan poco;
xx
     Ma per averlo al gir più snello molto
E perch’ivi il ferir non vien mortale,
Vuol ch’all’ampie sue groppe sia disciolto,
Contra il comune usar, di peso tale.
Ora al primo arrivar, dall’arme avvolto
Senza la staffa oprar sopra vi sale:
Il manco lato allor, restato nudo,
Il famoso Agraven gli armò di scudo,
xxi
     Lo qual cinge sicuro, e l’ha commesso
Con ben ferrati nodi al collo intorno.
Ha del cielo il colore, e in mezzo d’esso
Sta il capo di Gorgon di serpi adorno,
Ch’ha nel guardo crudel lo sdegno impresso
E d’uccider desio, che innalza il corno,
E da ciascun de i lati spira intento
Il Timore, il Sospetto e lo Spavento.
xxii
     Sono intorno di lor di saldo acciaro
Dieci cerchi fortissimi ravvolti
Che del porfiro duro stanno al paro,
E di chiodi profondi al legno accolti.
Di ferro dentro e fuor d’argento chiaro
Color vanno ombreggiando i tristi volti:
Venti sono in ciascuno, e posti tale,
Che di svellergli quindi arte non vale.