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CANTO XII

ARGOMENTO

      Nel mentre che in consiglio son raccolti
I guerrieri d’Avarco, Arturo assale
La città spaventata. Accorron folti
Alla difesa i prodi, e pugna eguale
Arde fra lor; ma nel merigge tolti
Sono ad Artur gli allori, e tanta e tale
È la rotta che soffre, che nel campo
Proprio ritrova miserabil scampo.

i
Il dorato balcon dell’oriente,
Poi che l’ultima tregua a fin venìa,
La sposa di Titon vaga e ridente
Con le rosate mani al mondo aprìa.
L’impigro Seguran con poca gente
Che più cara e miglior sempre il seguìa
All’albergo real del suo Clodasso
Pien d’altero desio rivolge il passo.
ii
     Nè molto doppo lui de i duci eletti
L’altra schiera onorata arriva insieme,
E ’n pubblico consiglio son ristretti
Sopra il tempo passato e ch’or gli preme.
I cor vari fra lor fan vari effetti,
Che l’un spera soverchio, e l’altro teme;
Chi vorria sol guardar la patria terra,
Chi di nuovo tentar più acerba guerra.
iii
     Fu il primo a ragionare il re Vagorre
Qual più antico e più degno, e così disse:
Saggio e’ il consigliator che sol ricorre
A quell’ultimo fin che in cor si fisse:
Quel sol rimira, e tutto l’altro aborre
Come al suo proprio danno consentisse;
E chi farà in tal guisa, raro fia
Che d’incontrare il ver perda la via.
iv
     Da poi che volle il ciel che di Clodasso
In Brettagna primier fugato e rotto
Fu l’oste allor nel Periglioso Passo
Per la troppa virtù di Lancilotto,
Di qua poscia dal mar di vita casso
Più d’un suo figlio essendo, a tal ridotto
Fu il nostro stato che di tanta guerra
Ogni speranza e’ chiusa in questa terra;
v
     La qual mentre sta in piè, si debbe avere
Dell’altro ricovrar secura fede,
Che non può lungamente sostenere
Il numero infinito in questa sede
Arturo o Clodoveo, ch’han tante schiere
Di sì varie nazioni: e già si vede
Mancargli alcun ch’io sovra tutti esalto,
Come il gran Lancilotto e Galealto:
vi
     Perchè passato e’ già più che ’l sest’anno
Ch’a queste invitte mura sono intorno,
Tanto che stanchi omai del lungo affanno
E dal gran faticar la notte e ’l giorno
Si può sperar che senza nostro danno
Tosto nel lor terren faccian ritorno,
Che non più stimeran ch’al tempo addietro
I tentati ripari esser di vetro;
vii
     Pur che senza provar novella sorte,
Come a nostra rovina spesso avemo,
Siano uniti i voler, chiuse le porte:
Poi con cura maggior ci guarderemo,
E sprezzando il romor d’invitto e forte
Che del proprio dever passi l’estremo
Volgerem sol la cura e la fatica
A difender di noi la patria antica.
viii
     Or senza ricercar più gloria in vano
Ma seguendo del ver l’istesso fine,
Armiam solo al salvar la nostra mano
Del sacro Avarco il nobile confine;
E poi che ’l gran nemico fia lontano
Sovr’altre region de i suoi vicine,
Ove non sia di noi sì gran periglio
Ne potrà il tempo dar nuovo consiglio.
ix
     Qui si tacque il buon vecchio, e si ripose
Nel suo seggio reale onde levosse.
Al fero Seguran non si nascose
Che per lui raffrenare il re si mosse;
Pur con voce assai dolce gli rispose,
E quanto orgoglio avea dall’alma scosse
Dicendo: Al saggio dir del re Vagorre
Non si può con ragion levar nè porre;
x
     Che senza dubbio avere, intera apporta
La salute d’ogni uom guardare Avarco,
A cui basta il tener chiusa la porta
E difender di lui l’angusto varco
Con sollecito studio e fida scorta,
E d’ogni altro desire andare scarco:
E come al segno fa l’accorto arciero
Drizzar solo a quel fine ogni pensiero.