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     Ch’alla sua realissima sorella,
Ch’avrà più di virtù che fiori aprile,
Di questa alma città gradita e bella
Ne farà dono a tale altezza umìle;
Perchè tanta bontà fia posta in quella
Alma più ch’altra mai chiara e gentile,
Ch’a pena quanto il ciel vede e ricuopre
Degno premio saria di sì bell’opre.
xcvi
     Fia ’l chiarissimo nome Margherita,
Ch’a lei si converrà più d’altra mai
Candida e pura, e ’n questa bassa vita
Spiegherà più che ’l sol lucidi i rai;
Del mondo schiva, e ’n sì bel nodo unita
Con l’eterno Motor, che gli uman guai
Non potran penetrar la divin’alma
Nè di lor sentirà terrena salma.
xcvii
     Fia mandata quaggiù per vivo essempio
De’ suoi santi tesor dal sommo Giove:
Sarà il pudico petto altero tempio
Delle tre caste Grazie e delle nove
Sue dotte figlie, al cui parlare ogni empio
Cor perderà le scelerate pruove;
Ch’ogni desir villan che i pravi ingombra
Si vedrà dileguar di quella all’ombra.
xcviii
     Spiegherà le medesme amiche insegne
Della sua famosissima Minerva,
Come sola di lei, non d’altra, degne
Nella mortale età dura e proterva:
Sì che l’aspra Medusa non si sdegne
Che la fronte fatale ad essa serva,
E ’l serpe e ’l fosco augel ch’Atene onora
Con voler della dea fien seco ognora;
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     E non senza cagion, però che ad essa
La divina scienza, ond’ella è madre,
Come a dolce sua figlia avrà concessa
Col cortese approvar del sommo padre:
Da cui verran, come da Palla istessa,
Pensier celesti et opere leggiadre,
Senno, grazia, modestia e caritade
E quante altre virtù sian belle e rade.
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     Dentro all’altero petto umile il core
E ripien di dolcezza avrà la sede,
Che tutte abbraccerà con puro amore
L’anime afflitte che fortuna fiede,
Solo al vero valor porgendo onore,
Non al carco furor d’ingiuste prede:
E fia dritta de i buon nella sua vita
Stella, timon, nocchiero e calamita.
ci
     Or qual dunque di noi fortuna avvegna,
Non può danno apportar che a questa spoglia,
Perchè piuma verrà non forse indegna
Più d’ogni altra talor che scriver soglia:
Ma quando fosse pur, la farà degna
Questa terrena dea che ’n carte scioglia
Il nostro affaticar di lodi carco,
Tal che mai non morrà l’antico Avarco.
cii
     E però, cinti il cor di questa speme,
Non contrastiamo al ciel co i nostri pianti,
I quai mal si convengono al gran seme,
Quale il nostr’è, de i cavalieri erranti;
E chi troppo il morir del mondo teme
Di generoso spirto non si vanti,
Ma lassando dell’arme il nobil uso
Spenda gli anni miglior tra l’ago e ’l fuso.
ciii
     Voi, miserelle donne, se piangete
De’ sostegni miglior trovarvi prive,
Gli occhi all’alte regine rivolgete
In cui somma pietà per tutte vive;
Se del lor breve corso vi dolete,
Ripensate all’onor dell’opre dive
Che in lor riluce, e s’al comprar sia caro
Per sì poca stagion nome sì chiaro.
civ
     Gl’innocenti figliuoi che in teneri anni
I dolcissimi padri hanno perduti
Truovan largo il guadagno tra’ lor danni,
Sendone al partir d’un mille venuti:
Ch’Avarco intero e i pubblici suoi scanni
Abbondar si vedran ne i dolci aiuti,
Nè più largo tesoro al figliuol ch’ama
Può il buon padre lassar che illustre fama.
cv
     Dato fine al suo dire, in terra scese
Il sacro Clitomede, e ’n basse note
Mormorando tra sè tre faci prese
Dal più vecchio degli altri sacerdote,
E ’n tre parti del rogo il foco accese
Delle quai la primiera era a Boote.
In vista poi di riverenza piena
Pur tre volte baciò l’arida arena.
cvi
     Già il tenebroso fumo intorno ingombra
E per torto cammin nell’aria sale,
Mentre ancor di piropo i legni adombra
Vulcano in basso, ch’avvampar non vale.
Già con fiamma crescente il nero sgombra
E s’addrizza nel ciel con lucide ale,
E di faville ardenti ha larga preda
Tra le frondi sonanti ch’ei depreda.
cvii
     Quel tre volte accerchiò con larghi giri
L’inerme popular con ratto piede,
Il cui suon di lamenti e di sospiri
Empiea tutta del ciel la prima sede,
Ricordando ciascun gli aspri martiri
Onde al partir de’ suoi rimane erede.
Fanno armati il medesimo i guerrieri
E i duci e i cavalier sopra i corsieri.
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     Chi getta sovra lor l’elmo o lo scudo
Ch’era d’alcun di lor lodata spoglia,
Chi la spada o lo stral ch’aguto e crudo
D’aspra morte al vicin portò la doglia,
Chi ’l suo più caro arnese, perchè nudo
Miser non scenda alla tartarea soglia.
In questo mezzo l’infinite trombe
Fan che l’aria, la terra e ’l ciel rimbombe.