Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
xxxix
Già l’uno e l’altro araldo si ricinge
Della vesta real per quello eletta,
Che in celeste colore alto dipinge
Il pino aurato ch’aquilone alletta;
Poscia il gemmato scettro in mano stringe
E pronto al suo devere il passo affretta,
E d’Arturo all’albergo è sopraggiunto
Che volea i suoi mandar quasi in quel punto;
xl
Ed esposta al gran re tutta altamente
L’ambasciata d’Avarco, in grand’onore
Pur ricevuti, e poi cortesemente
Per attender risposta messi fuore,
Lì domandato il primo quel che sente
Di questa offerta il suo discreto core
Fu il saggio re dell’Orcadi, che fisse
Ambe nel ciel le luci, e così disse:
xli
Dammi, signor del ciel, grazia ch’io prenda
Il verace sentier col mio consiglio,
Onde poi con onor per noi s’attenda
Il desiato fin d’ogni periglio.
Or con fermo sperar che in me s’accenda
Quel sacro spirto che creò il tuo figlio,
Dirò senza temer che non mi piace
Doppo guerra cotal sì indegna pace,
xlii
E che si possa dir che tanti regi,
Tanti gran duci illustri e cavalieri
E ch’ornati fur già di tanti fregi
Che sovra ogni altra età vadano alteri,
Per sì poca mercè ch’ogni uom la spragi
Aggiano in tal sudor tanti guerrieri
Già indarno affaticati sì lunghi anni
Che tutta Europa omai ne senta i danni.
xliii
E se ’l ciel ne darà, com’esser puote,
Che nessun vede aperto nel futuro,
Le speranze ch’aviam d’effetto vòte
E ’l cammino al passar più- acerbo e duro,
La colpa fia delle fallaci ròte
Della cieca fortuna, e non d’Arturo,
Com’or saria se di vergogna carco
Per sì poco terren lassasse Avarco:
xliv
Il qual, s’è ver che l’intelletto umano
Possa a i vati divin credenza dare,
Secondo il preveder di Pellicano
Debbe alle vostre man tosto tornare.
Poi l’aver nosco il nobile Tristano
Non ci fa d’ogni onor sicuri andare
Con voler ostinato in ogni sorte
D’esso o di tutti noi veder la morte?
xlv
Non avea fatto fin quando Gaveno
Al furor cieco usato che ’l trasporta,
Interrompendo il vecchio, allarga il freno
Ed all’ira soverchia apre la porta,
Dicendo: E’ perchè placido e sereno
Si mostra il volto a chi ambasciata porta
Simile a ciò ch’io sento, Arturo invitto
Che macchiail vostro onor, la gloria e ’l dritto?
xlvi
Dall’empio Seguran nasce il disegno,
Che voi con tutti noi sempre ebbe a vile,
Nè di più largo don vi stima degno
Che di breve terreno in nido umile.
Ma contro a gli oratori il giusto sdegno
Vorrei versare in sì spietato stile
Ch’ei restassero essempio in ogni loco
A chi tal degnità prendesse in gioco.
xlvii
Ma il famoso Tristan, ch’udir non vuole
Nel consiglio real sì lorde voci,
In dolce ragionar l’aspre parole
Chiudea dicendo: I cavalier feroci
Esser devrien sotto l’aperto sole
Con l’arme intorno e contro a i falli atroci,
Non all’ombra, in consiglio, e ’nverso quelli
Disarmati, innocenti e poverelli.
xlviii
Che colpa è di costor se ’l re comanda
Ch’ei vi vengano a far la vile offerta?
E che orgoglio è del re, s’offerta manda
Ch’a voi men che ’l dever si mostri aperta?
Che vergogna è d’Arturo ch’e’ si spanda
D’ambasciata cotal la fama certa?
Ben superbia sarìa, fallo e disnore
Il non far oggi lor richiesto onore.
xlix
Direi ben, sacro re, che in alcun modo,
Sì come in fino a qui da gli altri è detto,
Non si debba accettar, ma sciorre il nodo,
Che ’l tessuto lacciuol non abbia effetto;
E che si segua ognor confermo e lodo
Tanto, che giunta sia nel fin perfetto
Questa pia guerra, in cui di certo spero
Veder tutto ridurre al vostro impero.
l
Ma la tregua accordar, necessitade
E giustissima legge ne constringe:
Chè chi de’ morti suoi non ha pietade
A selvaggio leon simil si finge;
E convienne onorar l’antiche strade
Là dove ogni mortal Natura spinge,
E di quei più che solo in vostro onore
S’hanno al mezzo del dì troncate l’ore.
li
Doppo Tristan l’accorto Maligante,
Lionello e Baveno e ’l pio Boorte,
Ogni altro duce e cavaliero errante
Segue del suo parlar l’istessa sorte.
Arturo allor dal fido Gossemante
Fa del suo padiglion l’aurate porte
A gli araldi d’Avarco ratte aprire,
E rende la risposta in dolce dire:
lii
Questi onorati frati e fidi amici
Che più che ’l proprio cor mi tengo cari,
Ch’a i perigliosi tempi e gl’infelici
Non mi fur mai di lor medesmi avari
E lontan le native sue pendici
I figliuoi, le consorti in pianti amari
Han per me abbandonato e per l’impresa
Che con tanta ragion da noi fu presa;