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xi
Parmi che noi deviam volger la mente
A metterne in cammin ch’e’ sia più piano,
In cui non pèra tal la miglior gente
Nè sia sempre in periglio Segurano:
Del qual se privi semo amaramente
Preda vegnam degli inimici in mano;
Quantunque somma ho speranza e fede
Nel supremo valor di Palamede
xii
E d’altri molti poi, che foran degni
Per le rare virtù di sommo impero
E di salvar, non ch’un, mille altri regni
Con l’alma invitta e col giudizio intero.
Ma quello e ’l mio Clodin sì chiari pegni
Son degli anni miei stanchi, ch’io non spero
Ch’altri potesse mai servarme in vita
Se mi togliesse il ciel la loro aita.
xiii
Or adunque si cerchi, amici e figli,
Il sentier più onorato e ’l più sicuro,
Che non veggiamo, ohimè, sempre vermigli
Dell’Euro i liti e ’l suo cammino impuro,
E ch’io non viva ognor con tai perigli
Fra la notte angosciosa e ’l giorno oscuro;
Ma senz’altro timor di nuovi affanni
Possa al rogo portar questi ultimi anni.
xiv
Posto fine al suo dire, il re Vagorre,
Che di grado e d’età quelli altri avanza,
Comincia il primo: Perchè in Giove porre
Deve il più saggio cor la sua speranza,
Per la fede ch’ho in lui ciò che m’occorre
Dirò con sicurissima baldanza,
Senza riguardo aver di chi poi forse
Dica che ’l mio parlare il punse e morse.
xv
Parmi, osacrato re, che si devria,
Senza indugio interpor, proprio in quest’ora
Mandare al re Britanno, e dir che pria
Che si mostri al balcon la nona aurora
Gli porrete il paese in sua balìa
Di là dal varco dove larga irrora
I lieti campi l’onorata Cera,
In fin dove il suo corso arriva all’Era,
xvi
Perch’ei possa di quel, che pure è molto,
Largamente rifar Benicco e Gave,
E con suo largo onor trovarse sciolto
Di sì dannosa guerra e di sì grave:
Perchè d’ogni trofeo di palme avvolto
La profittevol pace è più soave,
E tanto più che spesso è ’l più lontano
Chi la vittoria aver si pensa in mano.
xvii
E di tutto poi quel che ritenete
Che primiero a gli scettri soggiacea
De’ Britanni e de i Franchi, promettete
Che sarà sotto a lor qual ei solea,
E ’l suo dritto a ciascun ne renderete
Come il re Ban, come Boorte fea;
Nè ve ’l tenete a vil, che ’l vero saggio
Per ragion mantener fugge il vantaggio.
xviii
Nè vi do per timor l’util consiglio,
Che la soverchia età naviga in porto,
Ma per levarn’omai l’aspro periglio
Ch’io veggio sopra noi cadere scorto.
Or non pensate voi che ’l sacro ciglio
Del gran Giove lassù conosca il torto
Ch’a voi stesso, ed a lui di ciò seguìo,
Dispogliando del suo quel seme pio?
xix
Nè vi sovviene ancor che lunge poco
D’esto seggio reale e di quest’ora
Voi prometteste in sì famoso loco
A quel Padre maggior che più s’adora,
Chiamando testimon del sole il foco
E l’ombra eterna che là giù dimora
Che s’ei vincea Gaven, queto e sicuro
Lassareste il paese in man d’Arturo;
xx
E che poi fu sturbata la battaglia
E ferito Gaven con vostra fede?
Com’or pensate voi che piastra o maglia
Regga contra ragion che in essa fiede
O di guerrier fallace il brando vaglia
Che di tanta perfidia è fatto erede?
E la colpa è di voi s’ei fu ferito,
Poi che l’ingiusto oprar non è punito.
xxi
E si chiedesse ancor consiglierei
Tregua per qualche dì perchè si possa
De i morti in guerra a gli infernali dei
Col foco consacrar le misere ossa,
Che d’un secol integro i giorni rei
Pria che varcar la sventurata fossa
Non trapassin vagando, e noi restati
Appellin con ragion crudeli e ’ngrati.
xxii
Qui si tacque Vagorre e ’l fer Clodino,
Che d’impedirlo avanti avea talento,
Se non che Seguran, ch’era vicino,
Di lassarlo finire il fèo contento,
Risponde: Or prima avvegna che ’l destino
Mi torni in giro come polve al vento
In tra l’Alpi nevose, al tempo crudo,
D’ogni amico e di ben povero e nudo,
xxiii
Ch’io consenta già mai ch’un re famoso
Qual or Clodasso, il vecchio mio parente,
Il cui giovine oprar sì glorioso
Già dall’indico Gange all’occidente
Empiè d’alto romor, da gli anni roso
Si veggia or tributario a quella gente
Della qual mille nomi e mille spoglie
Cingan de i tempii suoi l’aurate soglie.
xxiv
Or se qui Lionel fosse e Boorte
E Lancilotto ancor, l’animo fero,
Qual ne porrian bramar più dura sorte
O de i disegni lor termin più altero?
Che non cercan di noi l’acerba morte,
La qual tardi o per tempo usa il suo impero,
Ma di condurne all’ultimo disnore,
Ch’è ’l verace morir d’un nobil core.