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CANTO XI

ARGOMENTO

      Manda ad Arturo proposta di pace
Il re Clodasso, e tregua anco domanda.
Questa è concessa, quella a lui non piace
E gli Araldi con doni ne rimanda.
Per nove dì l'ira di Marte tace,
E la pietà de' morti al cuor comanda;
Ottengon essi preci e sepoltura
Tra il pianto de' parenti entro le mura.

i
Come i suoi biondi crin la bianca aurora
Sovra il Gange spiegando annunzia il giorno,
Il pio rettor dell’Orcadi vien fuora
Dell’albergo vicin con l’arme intorno
E cinto di pensieri ove dimora
Del re Britanno il padiglione adorno.
Entrò soletto, e già il ritruova in piede;
Ch’al bisogno comune ivi provvede.
ii
     Nè giunto apena fu, ch’ogni altro duce
Ogni altro cavalier di grande onore
Ch’era del suo splendor la maggior luce
Venne con riverenza e sommo amore
Per saper in qual parte si conduce
L’alto voler del sommo imperadore:
I quai posti a seder, gli prega Arturo
Che ’l debban consigliar del dì futuro.
iii
     Il re Lago il primier, come degno era,
Già levatosi in piè così dicea:
Ier poteste veder la lunga e fera
Guerra, per ambedue tanto aspra e rea
Che non si porria dir qual parte altera
Render grazie ne possa a quella dea
Che con l’ali cangianti in alto giace
E vola or quinci or quindi ove la piace.
iv
     Perch’io la vidi almen mille fiate
Or tra i nostri allegrarsi or tra i nemici,
Or tutti coronar di palme aurate
Or ripor tra i più miseri e ’nfelici:
Tanto che sono al fin sì bene ornate
Del sangue di ciascun queste pendici,
Che possiam dire egual la nostra gloria
E di duol pareggiata la memoria.
v
     Perch’io direi che la pietà ch’avere
Di chi muor con onor fra noi si deve
Ne sforzi a ricercar via di potere
Covrir quei che perir di tumol leve;
E ’nsieme ristorar le vive schiere
D’alcun dolce riposo, ancor che breve:
E chi percosso sia, ch’alquanto possa
Con più pace curar l’impiagat’ossa.
vi
     Nè può biasmo sentir d’anima vile
Il cercar da’ nemici alcuna tregua,
Ma di spirto pietoso e signorile
Il bramar che ’l suo dritto a i morti segua,
Io qual chi sprezza, allo spietato stile
Delle tre fere selvatiche s’adegua:
E chi per tal richiesta sprezzi noi
Guarde pur sè medesmo e guarde i suoi;
vii
     Si dirà ben che chi sì ardito il core
In guerra e così pronta aggia la mano
Non possa esser compreso da timore
Ritrovandosi in pace e di lontano.
Ma sia che può, che ’l candido valore
Non dee biasmo curar che venga vano:
Bastigli che ’l pensier lodato e pio
Egli stesso conosca, e ’l veggia Dio.
viii
     E se per poca gloria e così frale
Si lasseranno i nostri a i corvi preda
Non avem da temer che la mortale
Crudeltà nostra in noi medesmi rieda?
La vendetta del ciel tarpate l’ale
Non ha più che si soglia, a quel ch’io creda;
E ’nchinarse a i nemici in sì degn’opra
È via più bello onor che star di sopra.
ix
     Come ha ’l buon re finito, ogni altro insieme
Del consiglio real l’istesso afferma.
Ma la cura medesma il petto preme
In Avarco la gente afflitta e ’nferma,
Ch’ivi turba infinita intorno geme
Di giovinette donne e d’età ferma
Che chi ’l padre, chi ’l figlio ave smarrito,
Chi ’l fratel cerca indarno e chi ’l marito:
x
     Tal che mosso a pietade il re Clodasso
Adunato ogni duce e cavaliero
Dicea: Da poi ch’a sì dubbioso passo
N’ha condotti, signori, il destin fero,
Pria che ’l nostro cader vada più basso
E mentre ancora in noi l’arbitrio intero
Riman di poter dare all’aspro assedio
Con men dannoso fin pace e rimedio;