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assai per tempo, avanti che ti fussi esercitato, pigli a deffinire la natura del bello, del buono e dell’altre spezie: io mi fui accorto poco prima, quando tu disputavi con Aristotile qui. Egli è bello, divino, vo’ che sappi, questo tuo affetto a’ ragionamenti. Orsù t’isforza e ti esercita più in ciò che i molti estimano inutile e addomandono ciancie, infinoattantochè se’ giovine: se non, ti fuggirà il vero. E come, o Parmenide, mi debb’io esercitare? Così, com’hai udito da Zenone, Ancora t’ho ammirato, imperocché a lui hai detto che non ti sta a cuore si tenga ragionamente su per le cose visibili; sibbene su quelle che s’apprendono dalla mente, e s’addimandano spezie. E perciocché, disse Socrate, quelli, non è malagevole mostrar simili e dissimili, o che altro ti piaccia. Ottimamente: tuttavia è mestieri oltre a questo, non solamente, qualcosa supponendo che sia, di veder ciò che consegua; ma eziando di veder ciò che consegua supponendo ella non sia: se vuo’ tu più esercitarti. Che intendi tu? disse Socrate. Ed egli a lui: Per esempio, su la questione del molti proposta da Zenone qui: imprima, se supponi che il molti ci sia, dei notar ciò che intervenga e a esso in riguardo a sè e all’uno, e all’uno in riguardo a sè e al molti: e se supponi ch’e’ non ci sia, dei novellamente mirare ciò die derivi all’uno e al molti, in contemplazione a loro medesimi, e iscambievolmente. E così ancora, se poni la somiglianza sia, ovvero non sia, tu dei attendere a quel che addivenga da tutt’e due le ipotesi e alla cosa supposta e alle remanenti, rimirate sole, e insieme. E medesima-