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Capitolo dodicesimo. 229

cioè presuntuoso e indifferente alla civilizzazione, e quindi oppositore costante di chi cerca di portarvela.

Così il commercio di esportazione, a mio credere, sarebbe almeno prematuro il tentare di esercitarvelo ora gli Europei. Per volerlo sperimentare bisognerebbe fare le cose piuttosto in grande, e questo raddoppierebbe ancora le difficoltà. Innanzi tutto sui mercati si pretende sempre un prezzo assai più elevato dal compratore bianco, perchè si suppone che questi abbia sempre grosse somme disponibili, e che colle merci che acquista faccia poi favolosi guadagni. D’altronde fu sperimentato che quando il negoziante bianco si trova all’interno, prevale il pregiudizio che per mettere a profitto il suo tempo e il suo viaggio, si trovi costretto di comperare a qualunque prezzo, mentre quando il negoziante indigeno è arrivato ai mercati delle coste, vi è obbligato di vendere a prezzi ragionevoli per non rimanervi sulle spese e per prepararsi al ritorno. Grave ostacolo al commercio in grande sarebbero poi le continue rivoluzioni che in questo paese pullulano, e tengono agitate intere provincie per mesi ed anni: una grossa carovana derubata, o la via interrotta ad ogni comunicazione, sarebbe una vera rovina per la speculazione che vi si tenta. E per questo non vi sono garanzie, nè promesse, nè trattati col re che possano influire. Altra considerazione che milita in favore della mia idea è pur questa: le merci atte ad un commercio possibile provengono tutte dal Goggiam e dai paesi Gallas, dai quali per portarsi alla costa con carovane di muli carichi occorrono da due a tre mesi. L’Europeo in questo tragitto ha bisogno certamente di vivere molto meglio dei pochi indigeni che esercitano questo traffico, che vivono con farina, peperoni e cipolle, dormono continuamente per terra, e sono i primi a dar l’esempio ai servi coll’aiutare a caricare e scaricare. Sono poi gente paziente per la quale è ignoto il detto che tempo è danaro, e un mese di più di viaggio per loro è nulla, purchè si ri-