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Capitolo ottavo. 161

nivano ad offrire con delle mani che Dio sa da quando non videro acqua e cosa toccarono nel frattempo, e Naretti ci assicura che il rifiutare è una vera offesa.

La sera intanto s’era avvicinata e il tucul non brillava per troppa luce, che chi ne spandeva di molto fioca era uno stoppino infitto in una pallottola di grasso conservata in un avanzo di vaso. In complesso la scena era alquanto originale; e più che un banchetto da sacerdote lo avrei detto un festino da falsi monetarii.

Abbiamo frequenti emozioni di notizie, che fu visto a poca distanza il nostro corriere, che gente venuta dal campo reale ve lo vide e le disse sarebbe partito qualche giorno dopo, che il re venga a svernare in Adua e che pensi di riceverci qui; tutta una massa di fiabe che al momento ci danno qualche speranza, ma poi ci lasciano subito ricadere nell’avvilimento.

L’Abissinia poi è il paese delle fiabe, e dove non si può mai sapere nulla di vero. Credo assolutamente che la verità vi sia ignota o proibita. Qualunque cosa domandate al primo che vi capita fra piedi, mai questi vi risponderà: non so o dubito, ma sempre con tutta fermezza, e quello che non sa, inventa.

La mancanza di interesse a quanto si passa nella vita e l’ignoranza di qualunque strumento od osservazione che possa dar idea di misura e di tempo, fanno poi che i giudizii sono differentissimi e impossibile vi riesce avere informazioni, non precise, ma tali almeno da raccapezzarne qualche cosa. Domandate, per esempio, la distanza di un villaggio dove volete andare; chi ve la dirà di poche ore, chi di parecchie giornate, e tutta gente che ha percorso quel cammino o che abita quei dintorni. Ne abbiamo fatta esperienza nel nostro viaggio, che non una sola volta ci è riuscito di farci un giusto criterio di quello che si doveva fare l’indomani, o della durata di un dato tragitto.