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146 Capitolo ottavo.

vedendo in ogni bianco un turco, e turco ci chiamano per sprezzo: non hanno per altro coraggio di farci del male, temendo il castigo del re, e ci rispettano quando ci sanno protetti dal loro sovrano. Sono generalmente onesti, e questo credo in parte si deve anche alla mancanza di tante formalità e quindi all’abitudine di tener sacra una parola data o giurata su una vaga formola qualunque. La gravità delle pene fa sì che sono galantuomini, e raramente commettono rubalizi: ha portato invece l’altro inconveniente, che non osando appropriarsi, cercano, e sono di tale insistenza da mancare alla propria dignità e da far perdere la pazienza a qualunque santo. Tranne il re e uno o due dei principali capi, del resto tutti quanti gli Abissinesi peccano di questo grave difetto, vengono a farti visita con mille protestazioni d’amicizia, poi cominciano a domandarti tutto quello che vedono dattorno, poi quello che desiderano nella loro fantasia, e invece di avvilirsi alle continue negative, pare prendano maggior lena a cercare di colpire nell’oggetto del quale per indifferenza o per levarti la noia sei disposto a privarti. I più educati, se così si possono dire, sono quelli che invece di chiedere assolutamente ti propongono una vendita, ma si può ben star certi che il corrispettivo non arriverà mai più.

Noi avevamo moltissime medicine che furono distribuite a chi ne mostrava necessità o desiderio, ma la maggior parte, invece di malati, erano gente che voleva piuttosto la boccetta o la scatolina che non il farmaco, e i più trovavano che sì piccola dose di questo era impossibile potesse guarire uomini e mali così grandi.

Le prigioni furono edificate da madre natura in questo paese: i prigionieri si mandano a vivere su un altipiano tutto circondato da pareti verticali basaltiche e dove l’unico accesso possibile si fa guardare da pochi soldati: i condannati devono fabbricarvi la propria capanna e coltivarvi il grano necessario alla loro sussistenza.