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Capitolo ottavo. 139

tata dall’abitudine, lo rendono quanto mai pittoresco: le persone più agiate o che occupano alte cariche vi aggiungono una semplice camicia od un paio di calzoncini in tela bianca: il povero è meschinamente coperto da un cencio qualunque o qualche volta da una semplice pelle alla cintura: i bambini spesso come natura li fece. Le donne si fanno una piccolissima treccia che gira sul fronte e scende dietro le orecchie, e pettinano il resto della testa con una massa di treccine che partendo dal fronte, nel senso longitudinale del capo, scendono a radunarsi alla nuca. Gli uomini portano capelli corti, o in segno di distinzione cinque grosse trecce che pure scendono dal fronte alla nuca, e questo serve a dar loro aspetto assai marziale. Le prime spesso, i secondi qualche volta, uno spillone d’argento conficcato nei capelli. Le ragazze, in segno della loro verginità, portano una larga tonsura che tutta occupa la nuca e lascia solo un anello di capelli all’ingiro. Il costume comune alle donne è una camicia di tela ricamata a strani disegni con fili colorati, sul davanti, attorno al collo e alle maniche. Spesso hanno braccialetti anche ai piedi, piccoli orecchini e originalissime collane in argento. Alle dita molti anelli grossi ma lisci. L’uomo porta raramente monili: alle volte qualche anello d’argento alle dita: spesso però gli pende dal cordone azzurro, che in segno di cristianesimo porta al collo, un grosso anello in bronzo od argento, e, cosa curiosissima, uno spazza-orecchie alle volte abbastanza elegante, ma del quale credo che l’uso sia poco meno che ignoto. Comunque sia è strana la presenza di questo unico strumento da toeletta che sia conosciuto in paese.

Il D’Abbadie appoggia molto sul modo di vestirsi e sulle conseguenze almeno apparenti che ne derivano nei costumi per trovare un certo nesso fra gli Abissinesi e gli Etruschi, i Romani e i Greci, e come i Romani distinguevano la Gallia togata, la Gallia bracata e la Gallia comata, vorrebbe che l’Etiopia