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132 Capitolo ottavo.


A mezzogiorno mettiamo piede a terra in un ricinto in cui è una capanna che ci è destinata, desiderosi di rassicurarci della impressione simpatica che abbiamo dell’insieme di questa città, e ravvivati dal desiderio di rivedere che cosa l’arte e la civiltà hanno potuto in altri tempi.

Siamo subito pregati di una visita, e percorsa poca strada entriamo nel recinto sacro del tempio e per una viuzza giungiamo ad una capanna che dalle altre si distingue per capacità e proprietà. È l’abitazione del Cighié, titolo che si conviene al capo religioso e civile di questa provincia, e che fa le parti dell’Abuna, quando, come ora, questi manca in Abissinia. Il personaggio è assente, trovandosi al campo del re, ma i suoi figli, nipoti e servi ne fanno gli onori. Tutti sono accovacciati al suolo e ci accolgono cortesemente; noi pure sediamo come loro su tappeti e stuoie. Poco dopo recano un gran vaso di tecc coperto da stoffa rossa, come usano i grandi, lo posano su uno sgabello e ne versano il liquido in grandi bicchieri di corno, per poi riversarlo nelle solite bottiglie a cipolla col primitivo imbuto di due dita, e offrircelo. Recano poi un paniere con pane di teff e un vaso di berberi o peperoni rossi essicati poi impastati con cipolle, e adottando gli usi e le posate del paese dovemmo ingoiarne e assaporarne. Consumato questo sacrificio e risposto ad una vera tempesta di domande, si accommiatammo.

Accompagnati da Zaccaria che ci fa da interprete e da cicerone passiamo a visitare l’obelisco che rettangolare e leggermente rastremato al vertice si eleva di circa 25 metri: alla facciata è tutto scolpito e diviso con linee orizzontali e disegni strani e ripetuti. Alla base ha scolpito una finta porta cui non mancano i particolari delle serrature: misura metri 1.50 di larghezza e 1.15 di spessore, e sorge fra due grosse lastre ora sconnesse, ma che si vede dovevano perfettamente abbracciarlo e formargli come un pianerottolo all’ingiro: il tutto di granito