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gomitoni su d’un deschetto, che sebbene fosse sodo, pareva lì per isfasciarsi sotto quel peso. Di tanto in tanto beveva un sorso d’acquavite ad un grosso bicchiere che aveva innanzi; e chi avesse potuto vedere i sussulti del suo cuore, di certo diceva che bevesse per darsi coraggio, a udire i compagni parlare in quei modi di guerra e di morte. E sì che egli era prode e cimentoso; nè si conosceva chi fosse più esperto di lui, a condurre partite notturne, a farla da scorgitore, a caricare il nemico menandogli addosso una ruina di cavalli: ma tant’è non poteva farsi vivo, e stava mesto in quella guisa; quando capitò alla bottega un giovano trombetto, il quale, data un’occhiata intorno, gli fu dinanzi, e fatto quella sorta di scambietto, che gli ussari costumano nel salutare, recossi la mano alla visiera e gli disse: «signor uffiziale, il generale la vuole.»
L’uffiziale accennò d’aver capito, il trombetto ripartì ed egli gli tenne dietro, lontano pochi passi.
Il generale era un vecchio prode della guerra dei sette anni, ed abitava di faccia alla chiesa, una delle migliori case del borgo. I signori che l’albergavano, s’erano ridotti stretti da averne disagio; ma pur di piacere a quell’uomo rigido e sornione, pur d’averne un sorriso benevolo, si sarebbero acconciati a star sui solai: e nelle molte stanze occupate da lui, avevano accozzati quanti arredi e quadri tenevano in casa, che pareva una dogana. Le volte che egli gli degnava, si sbracciavano a mostrarsi più alemanni di lui: e rammentavano d’aver visti i proprii padri e tutto il borgo, piangere nell’anno 1737, ch’essi chiamavano sottovoce funesto, perchè le novanta terre delle Langhe erano state cedute in quello, dall’Imperatore al Re di Sardegna. Narravano, con sazievole loquacità, a tutta la canatteria di soldati scribi, ond’era ingombro il quartiere, come avessero avuto uno zio, morto a Belgrado, capitano ai servigi dell’Impero; e ne ponevano in mostra il ritratto, meravigliando che quei soldati non s’inginocchiassero a salutarlo.