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succia, dove Anselmo col calesse cominciava a spazientarsi, e scerpando manate d’erba, ne dava a mangiare al cavallo. I due s’accomiatarono ridicendo cogli occhi tutto quello che s’erano detto a voce; poi essa si mise dentro il legno, Anselmo si chinò per baciare la mano al prete, che non volle lasciarlo fare: ma come il cavallo partì, diede di volta pensoso, e passo passo lasciandosi menar dalle gambe, se ne tornò a casa.
Egli era, povero vecchio, il decano dei preti di C..., portava alla meglio i suoi settant’anni, e viveva solo. Da lunga pezza aveva visto addensarsi la bufera, che in quei giorni rumoreggiava terribile dalla Francia; e alcuni che erano stati da lui a scuola, ora che si udivano i fatti, rammentavano certe sue parole, dette molti anni prima, come profezie avverate. Scoppiata la rivoluzione egli ne aveva avuto un senso, diverso da quello fatto al clero, e per esempio a don Apollinare: perchè egli la capiva nelle sue cause; perchè egli aveva un cuore così grande, che nato re si sarebbe fatto mendico; perchè pensava che il medio evo fosse stato un troppo lungo oltraggio alla dottrina di Gesù, ed ancora non gli pareva finito. Perciò il grido di quella rivoluzione gli era giunto come una voce nota; e gli aveva fatto chinare la fronte, quasi somigliasse in qualche guisa ai tuoni del Sinai. A Parigi sarebbe stato coi Girondini sino alla morte; ma amava Danton, in cui per quel poco che n’udiva così da lungi, ravvisava qualcosa di San Paolo; in Vandea avrebbe dato il cuore a Bonchamps, la mano a Marceau; nel suo borgo oscuro, era un povero prete, poco capito, che viveva insegnando la buona latinità. Dal quale ufficio, e da un poderetto che aveva sui colli vicini, e formava il suo patrimonio ecclesiastico, gli veniva quel po’ di bene che faceva a metà coi poveri, che di quei tempi battevano numerosi alle porte. Molto aveva speso in libri e molto gli aveva studiati; e così vissuto in certa maniera coi morti, s’era mescolato poco a quel volgo di ricchi sfaccendati e di