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in mezzo alle nipoti; e nel tragitto essa capiva come camminassero confuse perchè guardate dalla gioventù del borgo: ma con quel suo viso calmo e muto, comandava rispetto a coloro che avessero osato fissarle di troppo. Nell’andare e nel tornare dalla chiesa le donne la salutavano: «damigella Maria:» ed essa si fermava fossero signore o popolane; appiccava discorso volentieri, interrogava e rispondeva benevola; e (tutti abbiamo qualche peccato) se quelle persone vestivano a nuovo, godeva a parlare della bella indiana, del rigatino, del bordato, che sapeva discernere al tatto e all’odore. E alle voci conosceva anche gli aspetti, e diceva delle cose e delle persone, servendosi sempre del verbo vedere, come se davvero avesse veduto. Passeggiava volentieri a lungo, ma fuori per i prati sulle rive del torrente, che col suo mormorìo gli pareva un compagno caro come le nipoti che le davano mano. Ma la sua felicità era l’estate, che se non s’andava in villa, poteva passare le ore su d’un’altana, ombrata di luppoli, la quale dava su di un vicoletto, e aveva di faccia la casa di quel don Marco, stato maestro di Giuliano. Da un terrazzino di quella casa benedetta, il giovane aveva veduta Bianca la prima volta, questa dall’altana aveva visto lui; l’intelletto d’amore s’era in essi destato; e per anni non era passato giorno, che non fossero stati ognuno al suo posto parecchie ore. Ma Bianca, trovandosi in gran confusione, si soleva tenere nascosta dietro certi vasi di fiori, col cuore che le pareva pieno di musiche, di canti, di quell’aura misteriosa che soffia la primavera. Non s’accorgeva di nulla la cieca, don Marco qualcosa del suo alunno capiva: tuttavia sapendo che l’amore nascente all’età di quei due è cosa divina, egli taceva.
Un giorno che ancora l’altana non era rinverdita, ma già si godeva a stare all’aperto pel tempo bellissimo; la cieca e le nipoti v’erano state confinate dal signor Fedele, il quale aveva in casa una persona, con cui gli